[Novelization] Nell (1994)

Questa settimana ho presentato Verdi dimore (1959), il film che porta su schermo la prima Jungle Girl del Novecento. Visto che il film Nell (1994) di Michael Apted, con Jodie Foster e Liam Neeson, sembra ispirato da quella storia – un “cittadino” scopre nei boschi una ragazza vive lì – ne approfitto per presentare il Prologo e il primo capitolo della sua novelization trovata su bancarella.
Per la scheda del libro rimando ai miei Archivi di Uruk.


Nell

Prologo

Provate a immaginare il volto di una bambina.
È a letto, pronta per dormire ma una strana eccitazione e un senso di attesa la tengono sveglia. È una bimba di non più di quattro anni, il suo visino a forma di cuore è illuminato dalla debole luce proveniente dal corridoio.
Dei passi leggeri attraversano il pianerottolo, la porta si apre, proiettando un fascio di luce sul pavimento della sua graziosa cameretta.
«Non riesci a dormire?»
Lei scuote decisa la testa e sorride. Conoscono entrambi la ragione della sua insonnia.
Il padre della bimba si siede sul letto e con la sua presenza rassicurante rinchiude l’ansia e la tensione della piccola tra le candide lenzuola. In quel momento tutto il suo mondo, un mondo di certezze, è delimitato dai confini del letto ma con l’immaginazione si avvicina a quei confini, ansiosa di oltrepassarli, di vagare al di là della camera, in un luogo lontano, in un altro mondo.
«Agitata per domani?» le chiede.
«Uh-uh.» Lei annuisce solenne. «Non vedo l’ora.»
Il padre è di corporatura robusta, sulla quarantina, alto e forte, con lunghe gambe e braccia muscolose, grosse mani segnate dai calli. Ma c’è comunque della dolcezza in lui: grandi, gentili occhi grigi e voce calma, pacata, dalla tipica cadenza irlandese. Indossa una vecchia camicia a quadri e blue jeans così logori e stinti che sembrano intonarsi al colore dei suoi occhi. L’insieme lo fa apparire segnato dalle preoccupazioni e insieme animato da giovanile candore.
Sorride alla figlia. «Innanzitutto devi cercare di dormire un po’. Mettiti calma. Chiudi gli occhi.»
La bimba si rannicchia nel letto, nascondendosi tra i cuscini, serrando gli occhi. Il padre rimbocca le lenzuola poi dolcemente, delicatamente, le accarezza la guancia. Un gesto che lei conosceva e al quale si abbandonava sin dalla nascita, una tenera carezza che esprimeva un misto di amore e calore, un gesto così semplice che diceva così tanto.
«Ti voglio bene», le sussurra.
«Ti voglio bene, papà.»
Lo guarda con gli occhi colmi di felicità.
«Ho detto: chiudi gli occhi.»
La bambina chiude forte gli occhi, le palpebre serrate, come se così potesse addormentarsi più velocemente.
Il padre esita per un momento, poi incomincia a parlare. La sua voce è bassa, calma, cantilenante, un insieme ritmico di parole che fluiscono come dolce acqua sorgiva. A un estraneo questa melodia può apparire insensata: suoni di un linguaggio incomprensibile messi insieme senza un significato o una ragione.
«Ninna ninni dei pie’, ninna ninni dei ma’. Ninna ninni dei oc’…»
Ma il loro effetto è così familiare per la bambina che un lieve sorriso appare sul suo volto e quasi immediatamente il suo respiro si fa più regolare e profondo, preludendo finalmente al sonno.
«Ninna ninni dei oc’, ninna ninni de’e orec’… ninna ninni kine, ninna ninni de’ ve’o, ninna ninni alo’lei…»
In quegli istanti, prima di assopirsi, la sua immaginazione fluisce finalmente libera e vola lontana, accompagnata dolcemente dalla musica delle parole del padre, che come piccole spirali di fumo la librano leggera in un luogo lontano.
Ora, in silenzio, lui siede a lungo sul bordo del letto della figlia, contemplandola con quell’amore incontenibile che un padre prova per la propria creatura. Si stupisce anche dei dettagli più banali.
C’è stato un tempo in cui non si accorgeva di nulla e provava ben poco aU’infuori del dolore. Naturalmente quel tempo era prima di Nell.
Egli non pensa al proprio respiro o ai battiti del proprio cuore, ma nella sua piccola queste normali funzioni sono fenomeni che lo riempiono di soggezione: la semplice struttura del suo volto, un miracolo; la morbidezza della sua pelle, un prodigio.

Capitolo 1

La brezza del lago si accompagna al calore dell’estate, ma i pini, alti e silenziosi, che si ergono sulle rive, confermano che questo è un paesaggio invernale. Questo lago si trova in alta montagna ed è una pozza d’acqua situata nel cratere di un vulcano vecchio di oltre diecimila secoli. Il lago è uno stretto bacino di acqua stagnante, fredda e scura, con tutt’intorno alte rocce scoscese di granito, dirupi crivellati da crepacci e grotte. Anche i dintorni sono brulli, selvaggi, remoti. È un luogo isolato, difficilmente accessibile, un luogo in cui nascondersi.
Anche i colori sono smorzati, una tavolozza di verdi tenui, grigi e porpora pallidi, come se non si volesse attirare l’attenzione sugli impareggiabili misteri della natura. Le montagne sono costituite dalle vette sfrangiate delle Washington State Cascades, di color malva scuro in contrasto con il blu cobalto del cielo, costellato di nuvole e misterioso, come un arcano di pietra. Il paesaggio ai piedi della collina non è meno severo: creste su creste di roccia grigia che si elevano dalle rive del lago in balze scoscese. Le conifere sono di un verde tenue e gettano un’ombra scura come la notte. Solo il cielo, il cielo blu e luminoso dell’estate, è vibrante e pieno di vita.
C’è un profondo silenzio, rotto solamente dal sibilare del vento tra gli alberi, dal fruscio dell’acqua che lambisce le sponde e dal tintinnare dei ciottoli sulla riva.
Ma al di sotto di questi suoni attutiti c’è un altro suono, un triste, dolce suono umano. È la voce smorzata e malinconica di una donna.
«Ninna ninni delle mani», lei canta, «ninna ninni delle mani, ninna ninna degli occhi… ninna ninni delle orecchie…» La canzone è un lamento, carico di tristezza e dolore.
«Ninna ninni dell’albero, ninna ninni del vento…»
Qualcuno vive qui. Nascosta in una stretta conca, a poche centinaia di metri dal lago, c’è una piccola, solida casupola di legno, con le assi scolorite dal tempo e dalle intemperie. Un portico di tavole irregolari circonda la capanna e due finestre si affacciano sul lago; su un lato spunta un comignolo di mattoni. È una struttura semplice ma robusta, situata su fondamenta solide. I forti venti potrebbero investirla e la spietata neve dell’inverno sommergerla, ma questa semplice abitazione rimarrà sempre in piedi. La costruzione è ricoperta di muschio e licheni, talmente ricoperta che sembra avere origine dalla foresta stessa piuttosto che essere stata costruita dall’uomo. Vicino alla casupola c’è un piccolo molo di legno proteso sul lago.
Il suono proviene dall’interno. La voce è un borbottio e le parole sono spezzate. Un altro tentativo.
«Ninna ninni alo’lei…»
Poi lentamente sciama in uno sconnesso dolore.
«Aiee m-mou…»
È il lamento raggelante di un animale, un gemito di inconsolabile sofferenza e profonda paura. Il grido sembra rimanere sospeso nell’aria per un momento, zittendo il vento e l’acqua, come se la natura stessa fosse in ascolto, ammansita solamente dal lamento penetrante.
Per un lungo istante, regna il silenzio. Poi, più lontano, sopraggiunge un altro suono. Un suono ancora più in contrasto con il paesaggio circostante dello stesso grido di dolore. Comincia come un ronzio, lontano ma invadente, un suono arrabbiato e ostile. Poi, avvicinandosi, diventa più chiaro e distinto, gutturale e profondo. È il roboare di un motore.
All’improvviso la motocicletta sbuca dalla fila di alberi. Impennandosi lungo la sponda, con il motore scoppiettante, la potente moto sembra una macchina infernale progettata per sconvolgere la pace, la tranquillità e la bellezza del paesaggio. E il motociclista è inconsapevole del suo improvviso e brutale atto di profanazione.
La brusca intrusione di questo rumoroso esemplare di tecnologia del ventesimo secolo sottolinea la natura remota e solitaria del posto. In questo pianeta così affollato sono rimasti pochi luoghi come questo. Non c’è nessun segno imposto dal mondo moderno: cavi telefonici, antenne televisive, macchine posteggiate, neppure la strada più rudimentale.
Ma il motociclista non nota niente di tutto ciò. Si chiama Billy Fisher, un ragazzo del luogo, turbolento e sventato, la cui mancanza di carattere lo piazza a metà tra il malvivente e il teppista. Ha diciotto anni, naturalmente non indossa il casco e i lunghi capelli si scompigliano nel vento. Sui blue jeans sporchi indossa una giacca di pelle senza maniche che mette in mostra i muscoli delle braccia e dell’addome.
Scarsamente istruito e di tanto in tanto occupato con lavori saltuari, Billy Fisher è insensibile a qualsiasi genere di bellezza e i suoi divertimenti sono molto semplici: bere birra, fare il diavolo a quattro, partecipare alle risse, giocare a biliardo, sollevare pesi e guidare la moto in percorsi difficili, terreni impervi come questo. Per potersi permettere tutto ciò accetta qualsiasi lavoro gli venga offerto, il più stabile dei quali è la consegna mensile di generi alimentari in questo luogo selvaggio.

~

Billy frenò bruscamente la moto sollevando ghiaia e terriccio, proprio di fronte alla casupola, spense il motore, scese dalla sella e si caricò del cartone di provviste, fissato con una cinghia al sedile posteriore. Dopo il ruggire del motore il silenzio sembrò ancora più profondo e il suono proveniente dall’abitazione ancora più misterioso.
«Aiee m-mou… m-mou…»
Billy Fisher udì il lamento e raggelò. Per un attimo credette trattarsi di un animale, il bosco pullulava di orsi e uccelli, ma non poteva dire che avesse l’impellenza di un grido di sofferenza. Era un eloquente suono umano, intenso e permeato di dolore.
Deglutì e si asciugò dalla fronte l’improvviso sudore, sollevò il cartone delle provviste sulle spalle e si diresse con cautela verso la casupola. Una porta sbatté e Billy trasalì. Ma era solo il vento contro la vecchia zanzariera della porta.
Billy era pietrificato. Si fermò alla base degli scalini traballanti, con i capelli dritti in testa. C’era qualcosa di strano. «Consegna questa merda e taglia la corda», pensò. Salì i primi tre gradini. «Signora Kellty?»
Dall’interno della casupola non giunse risposta. Billy Fisher odiava la consegna mensile alla casupola. Il tragitto era un vero sballo, ma aveva paura e provava un senso di repulsione per la
vecchia, pazza signora Kellty, la donna che aveva scelto di vivere reclusa in questo luogo remoto. C’era in lei qualcosa di sbagliato – Billy non sapeva che cosa fosse esattamente, egli provava l’avversione che i giovani hanno per la vecchiaia e le malattie – la sua parte destra era irrigidita e innaturale e il suo modo di parlare terribilmente indistinto e difficile da capire. La cosa peggiore erano i suoi occhi blu, folli e fissi, occhi che lo scrutavano con circospezione, come se lei sospettasse che il ragazzo delle consegne non fosse perbene. E inoltre, non dava mai la mancia.
Arrancò per gli scalini della casa ed entrò in cucina sbattendo le provviste sul tavolo, sperando che il rumore annunciasse la sua presenza. «Signora Kellty? Ho portato le provviste.» I suoi occhi vagarono per la cucina, ma senza interesse. Gli era già tutto noto.
La stanza con il soffitto basso era dominata da una stufa di ghisa a legna, un panciuto oggetto fuori moda, con il fuoco che ardeva giorno e notte per tutto l’arco dell’anno. Il resto degli arredi era antiquato. C’era una ghiacciaia con la porta di ottone, un’alta credenza con le vetrinette e un grosso barattolo di latta per la farina. Non c’era acqua corrente e quindi neppure il lavandino. C’era invece un catino di latta grigio e numerose, grosse caraffe per l’acqua. La casa era ordinata e pulita, ma per Billy Fisher la modesta cucina era deprimente e miserevole.
Scosse la testa chiedendosi come si potesse scegliere di vivere in modo così modesto e con così poche comodità.
«Vecchia pazza», sussurrò.
Ancora non c’era traccia della vecchia signora e la casa era paurosamente calma. La porta che conduceva alla camera era socchiusa. Cauto Billy guardò all’interno, scrutando nel buio e cercando di distinguere i dettagli della stanza.
Quando i suoi occhi si abituarono alla luce fioca, vide un letto in ferro traballante, un specchio alto, una rigida sedia dallo schienale sdrucito. Un vago odore di stantio sembrava permeare la stanza e Billy Fisher arricciò il naso per il disgusto. Era l’odore di sapone fenicato e di vecchi vestiti, l’odore di una vecchia signora.
«Puah!» disse.
Billy mosse qualche passo all’interno della stanza. Il corpo della signora Kellty era disteso sul pavimento. Per un attimo non riuscì a fare altro che rimanere immobile. Il corpo, vecchio e fragile, era disteso come in una camera mortuaria, accuratamente composto per la morte. Indossava un paio di logori stivaletti stringati, un abito verde lungo e una consunta giacca imbottita. Le vecchie mani erano incrociate l’una sull’altra sull’esile petto, la pelle quasi traslucida ma chiazzata dalle macchie del fegato tipiche della vecchiaia e dall’intersecarsi di profonde vene violacee.
Il volto rugoso della signora Kellty era infossato, le guance flaccide e scavate, le sottili labbra esangui. Ma, per un attimo, Billy pensò che gli occhi della vecchia signora fossero spalancati, fissi sul soffitto di legno. Erano occhi misteriosi, ancora più strani di quei folli occhi blu che Billy conosceva così bene: erano di un giallo luminoso e cerchiati di un bianco candido. Gli fu necessario un secondo per realizzare che non erano assolutamente i suoi occhi, ma fiori. Qualcuno aveva deposto due margherite nelle cavità oculari, con petali bianchi che circondavano il pistillo giallo brillante.
«Gesù Cristo!» urlò Billy.
Incapace di distogliere lo sguardo da quella strana scena indietreggiò verso la porta dalla quale era entrato.
Poi una morsa di terrore l’aggredì e voltandosi scappò via. Brancolò attraverso la cucina e si precipitò fuori dal portico, correndo verso la moto.
Il motore partì al primo colpo, rombando, ma Billy, nella fretta di andarsene, quasi mancò la marcia, costringendo la vettura a una brusca sterzata. La moto ruggì quando diede gas al motore e si diresse a tutta velocità verso il pendio in una nuvola di polvere e aghi di pino. In pochi secondi era ormai lontano, il rombo della moto distante; il silenzio ritornò nella radura quando il polverone cominciò a posarsi sul terreno.
Poi ritornò il lamento, il lamento umano.
«Ai-eee m-mou m-mou…»

L.

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5 risposte a [Novelization] Nell (1994)

  1. Cassidy ha detto:

    In effetti Nell ha molte delle caratteristiche della Jungle girl, ho visto parecchio volte il film, Jodie Foster é sempre bravissima. Cheers!

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  2. Pingback: Panic Room (2002) L’assedio di sicurezza | Il Zinefilo

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