Gli anni Quaranta si aprono con poche certezze ma granitiche: per conquistare gli spettatori, su schermo vanno proiettati gorilloni assassini e donne pepate, il tutto condito con avventura esotica e stereotipi razzisti. È impossibile sbagliare.
Appena William J. O’Sullivan prende le redini della casa produttrice Republic Pictures lancia una serie di filmoni a puntate dove siano presenti questi elementi: uno dei grandi successi dell’epoca è Perils of Nyoka (1942), serial costruito su personaggi già accennati nel film La figlia della jungla (Jungle Girl, 1941), sempre della Republic.
Malgrado quanto venga pubblicizzato, né Jungle Girl né Perils of Nyoka hanno nulla a che vedere con i personaggi nati dalla penna di Edgar Rice Burroughs.
Nella piccola città nordafricana di Wadi Bartha un gruppo di archeologi guidato dal professore Douglas Campbell (Forbes Murray), scopre un antico papiro, così antico ma così antico… che solo due persone al mondo sono in grado di tradurlo: il professor Henry Gordon, che però è scomparso – rapito dai musulmani – e sua figlia Nyoka Gordon (Kay Aldridge).
Ecco dunque che mentre cerca il padre la nostra Nyoka ne approfitta per aiutare gli archeologi, senza però sapere di essersi attirata le ire della perfida Vultura (Lorna Gray, scomparsa il 30 aprile scorso alla veneranda età di 99 anni!), crudele regina del deserto che vuole per sé quel papiro e comincia a scatenare i suoi biechi emissari: per esempio il conte italiano Benito Torrini (Tristram Coffin). Siamo nel ’42, quindi gli italiani sono tutti nazisti, al cinema…
Lo scontro fra le due donne arriverà a farsi anche fisico, all’interno della camera segreta di Vultura, ma è inutile negarlo: l’attrazione principale del film è Satan, il gorillone al servizio della regina del deserto che rappresenta il suo fenomenale braccio armato.
Nel ruolo del gorillone troviamo – non accreditato – Emil Van Horn, specializzato in ruoli di gorilla: fra le sue tante apparizioni pelose, va ricordata l’esordiente House of Mystery (1934) e quella ne L’uomo scimmia (1943) accanto a Bela Lugosi.
«Non ho mai capito nulla della storia che stavo girando», ricorda la 72enne Kay Aldridge nel settembre 1989 alla giornalista de “La Stampa” Alessandra Pieracci che la intervista in occasione del Festival RiminiCinema, dove il film viene proiettato per la prima volta in Italia (anche se in lingua originale). «Mi avevano infilato addosso un paio di pantaloni corti, una sahariana con cartucciera sul petto e cinturone. Io, regina della moda, vestita da esploratore! Eppure ero sexy lo stesso.»
La cosa curiosa è che il citato festival di Rimini era dedicato ai “Rapporti tra l’Europa e gli altri continenti”… e trasmettono un filmetto strapieno di stereotipi razzisti?
In quindici capitoli di circa trenta minuti l’uno la saga attraversa tutti i dettami dell’avventura, ma a questo punto ne approfitto per una riflessione più generale.
Per quanto le attrici abbiano sempre sfidato la morale popolare, siamo ancora in un secolo dalla cultura maschilista e in un Paese fortemente moralista: non è possibile che una donna sia indipendente, si muova a suo piacimento libera da vincoli morali e soprattutto non renda conto a nessun uomo. A meno che ovviamente non sia una zoccola…
Malgrado possa apparire secondario, è questo il registro con cui vengono ritratti i personaggi femminili di questo periodo: sono donne libere – e magari con le cosce di fuori! – solo le zoccole che poi muoiono; le protagoniste, belle e brave, non possono mai essere indipendenti.
Che si parli di storie di gorilla, di jungle girl cresciute da sole in mezzo alle bestie feroci o di avventuriere, è assolutamente escluso che queste donne siano libere di decidere della propria vita: se sono avventuriere allora sono alla ricerca del padre rapito, se invece sono nate nella natura… nel momento esatto in cui vedono un uomo bianco civile devono seguirlo. Non esiste altra alternativa socialmente accettabile.
Perché ogni avventuriera dello schermo cerca il padre? Perché se ad essere rapito fosse il marito questo sarebbe un gravissimo danno per la di lui mascolinità: quale uomo accetterebbe di essere salvato dalla moglie? Sembrano discorsi maschilisti appartenenti ad un altro secolo, ma basta guardare quello che succede nel film Into the Blood (2014) per capire che è uno stereotipo ancora “fresco”: il maritino Cam Gigandet può fare tutte le faccette da duro che vuole, ma non ci fa una bella figura ed essere salvato dalla moglie Gina Carano, che è muscolosa il doppio di lui. Ogni spettatore maschio pensa: ma come fa Gina a stare con quel pupazzetto? (E infatti nella vita vera sta con Henry “Superman” Cavill, anche se litigano sempre!)
Quando il re della giungla incontra una donna, la donna rimane lì con lui. Quando la regina della giungla incontra un uomo, lo segue e abbandona il suo regno. Perché una donna non può mica fare come le pare a lei: ve l’immaginate una donna cresciuta nella giungla… che decide di rimanere da sola nella giungla senza la protezione di un uomo bianco? Ma siamo matti?
Ecco così che questi personaggi femminili di inizio Novecento – che sto man mano presentando in questo blog all’interno di vari cicli – appaiono spaventosamente piatti, semplicemente perché la morale maschilista impedisce qualsiasi esperimento, anche per assurdo. Una donna può sparare e può essere una criminale, e addirittura può mostrare abbondanti fette di coscia: tanto è una zoccola e alla fine muore…
In pratica si ricrea il modello delle etère greche e delle geishe giapponesi: donne istruite, di gran gusto e che parlavano con gli uomini addirittura alla pari, e sebbene la società le considerasse prostitute avevano paradossalmente una vita più ricca delle “bravi moglie”, sepolte vive in casa senza diritto di parola…
In chiusura, va notato come nello stesso 1942 di questo serial la casa Fawcett Comics inizi a presentare storie a fumetti con protagonista “Nyoka the Jungle Girl”, che ottiene una testata tutta sua nel 1945 e viene ripresa poi negli anni Cinquanta. Ne parlerò più approfonditamente quando ci sarà da scalare la montagna dei Jungle Girls Comics…
Bibliografia
Encyclopedia of American Film Serials (2017) di Geoff Mayer
Lei nel salotto della jungla, di Alessandra Pieracci, “La Stampa”, 26 settembre 1989
L.
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Ma quindi, Avvoltoia regina dei gorilla morirà a fine film?
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Non faccio spoiler, ma se mostra le cosce è già condannata 😛
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Ah, il fato nei vecchi film era un vecchietto conservatore!
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Presentare un film così ad un festival dedicato ai rapporti con gli altri continenti, è come presentare “Cannibal Holocaust” ad un convegno vegano. Comunque tra Gina Carano e Superman, vince Gina senza bisogno della Kryptonite 😉 Satan è meritevole almeno quanto lo stacco di cosce, chissà che caldo sotto quel costumone! Cheers
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Mi sa che i caratteristi scimmieschi non avevano vita lunga, a forza di fare saune in costumi fatti in chissà che materiale!
Me lo immagino un Natale a casa Carano, con Gina e Superman 😀
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E io mi chiedo quanti spettatori casuali ancora oggi rischino di vederci “solo” un vecchio film, senza accorgersi nemmeno di tutto il razzismo e maschilismo che impregna praticamente ogni singolo fotogramma…
P.S. Gina Carano Jungle girl: “Vado a salvare chi cazzo mi pare e piace! AVETE QUALCOSA IN CONTRARIO??” 😛
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ahahaha che darei per vederla in un film del genere! Ne ha fatte tante di scelte sbagliate, che cambia una in più? 😛
Fra Jungle Girl, mummie e gorilloni sto facendo il pieno di film americani della prima metà del Novecento, e davvero il razzismo e il paternalismo si tagliano col coltello. E non puoi risolvere tutto dicendo “erano altri tempi”, perché quelle sono le basi della cultura popolare ancora attuale, che cerca di ripulirsi ma è da lì che viene…
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Saranno razzisti, ingenui e stupidotti, ma i serial Republic sono sempre una gran goduria.
Questo ancora mi manca ma lo voglio recuperare al piu’ presto.
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In fondo le avventure seriali servono ad intrattenere con storie di grana grossa, con personaggi esagerati che in fondo servono a farci sghignazzare. Una regina del deserto che gira per l’Africa su una biga con gorilla al fianco… andiamo, come si fa a resistere? 😀
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