Una regina della giungla non si nega a nessuno, neanche alla minuscola Lippert Pictures, che il 13 agosto 1948 inizia la sua attività producendo questo minuscolo, dimenticabile e dimenticato Jungle Goddess: nei quasi dieci anni successivi la casa invaderà le sale di filmetti senza pretese, probabilmente titoli perfetti per una coppietta che vada ad appartarsi in un drive-in.
L’IMDb riporta il fantomatico titolo italiano Fuga nella giungla e in effetti si trova in rete una locandina italiana (che vedete a fianco) con questo titolo. L’11 marzo 1957 esce nei cinema italiani un film con questo titolo, è vero, ma protagonista risulta essere Patricia Morison (e un fantomatico Richard Harlem, probabilmente un errore della stampa italiana). Quasi sicuramente si tratta di Queen of the Amazons (1947), interpretato dall’attrice ben nota in italia, visto che in pratica quasi tutti i suoi titoli sono giunti da noi.
La soluzione sembra semplice: il titolo Fuga nella giungla indica un film arrivato in Italia nel 1957 (che altre fonti riportano nel cast la Morison ma potrebbe essere un errore di stampa), ma poi il titolo è stato riciclato quando il 27 novembre 1982 Jungle Goddess è stato trasmesso in TV (per la prima ed unica volta) dal canale R.T.A. Quest’ultimo è l’unica prova di un passaggio del film nel nostro Paese.

Wanda McKay nel ruolo della Jungle Goddess
1939, scoppia la Seconda guerra mondiale e la giovane ricca e viziata Greta Vanderhorn (Wanda McKay) si alza e dice: «Sapete che c’è di nuovo? Io mi vado a buttare in qualche angolo sperduto di mondo.» Probabilmente fornisce altre spiegazioni, ma già non stavo più attento.
Durante il viaggio in aereo casca in Africa – ammazza che novità! – e subito gli indigeni, che sono neri e quindi stupidi, la venerano come una dea. «Portatemi al vostro villaggio», dice la donna, stupendosi che gli aborigeni africani non la capiscano. Curiosamente ripetere la stessa frase a voce più alta non serve – mentre di solito è il sistema universale per far comprendere una lingua straniera – ma basta dire «Casa» mimandola con le mani che subito anche gli stupidi africani capiscono. L’inglese, si sa, è la lingua internazionale…
Un bikini leopardato, un’ancella personale a cui insegnare a fare lo spelling – che nella giungla africana serve sempre – e Greta diventa la dea del villaggio.

La dea ha parlato!
Finita la guerra, il riccone papà Vanderhorn offre una sostanziosa ricompensa per chiunque gli riporti la figlia. Non c’è bisogno di sapere altro per due avventurieri duri e puri, rotti ad ogni situazione, come il baffuto Bob Simpson (Ralph Byrd) e l’aitante Mike Patton (George Reeves, futuro Superman televisivo degli anni Cinquanta).
Partono un po’ di immagini di repertorio dei soliti animali africani, poi i due trovano l’aereo caduto in Africa e in breve arrivano al cospetto della dea.
Chiacchiere inutili in inglese, chiacchiere stupide nella lingua inventata che secondo i produttori è l’africano, e via di stereotipi: impossibile non notare che gli abitanti del villaggio appartengono a tutte le razze del mondo. Per gli americani uno scuro è un africano, non importa da dove provenga…

Due classici duri d’altri tempi
Da anni Greta vive tranquilla nel villaggio, servita e riverita, venerata come una dea… ma stiamo scherzando? Le donne bianche devono stare in casa là in America, a cucinare a piedi nudi, quindi Mike Patton e la sua mascella quadrata la prende e se la porta via. E ammazza tutti gli sporchi africani che osano anche solo far notare l’assurdità della scelta.
In pochi minuti di storia da dea della giungla Greta diventa la solita donnicciola impedita dei film dell’epoca, che inciampa ogni secondo – si sa che al cinema le donne sono incapaci di deambulare – e ha bisogno dell’aitante maschio bianco per qualsiasi cosa. Ma non era una dea, fino a un minuto prima?

Da dea a donnicciola in pochi semplici passi
Mettersi a giudicare un prodotto da due soldi, già dimenticato il giorno dopo essere uscito in sala, è inutile. Però va fatto notare che al di là della qualità di questi film il messaggio resta sempre fermamente lo stesso: una donna bianca non può stare da sola e soprattutto non può fare come le pare. E se mo’ cominciamo a permettere alle donne di pensare con la propria testa… dove andremo a finire?
Come già ho fatto notare per questi film della giungla, se un uomo finisce in Africa può restare, quello è il suo regno; se una donna finisce in Africa deve immediatamente seguire il primo uomo bianco che vuole riportarla a casa. Anche se non capisce la sua lingua, perché l’ha spiegato bene il comico Maurizio Milani: «La donna quando non capisce… si innamora!»
L.
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Più propoganda di cosi ! agli all american boy,non andava giu che se la trombassero i neri questo e il non detto del filmetto^_^
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Eh sì, anche il più fetente filmetto si rifaceva a questo stereotipo…
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Un altro esempio del concetto “Regina sottomessa all’uomo bianco e retrocessa a casalinga” si trova nel film TOTO’ SCEICCO; la regina Antinea, potentissima e ricchissima, conclude la sua esistenza a casa di Totò, il maggiordomo.
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Vero! Anche le commedie dichiaratamente parodistiche sottostavano allo schema fisso: una donna non può mai essere libera, né regina né dea!
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Sarebbe bello vedere una si queste jungle girl come La donna eterna di Haggard: così, per vedere qualcosa un po’ diverso, una figura epica e non la solita bella sguattera – donna schiava lava cucina e chiava.
Che poi, se una persona sopravvivesse, dalla nascita o da adulta, in un posto presumibilmente privo di comodità, dovrebbe essere indicativo di capacità di gestione degli ambienti selvaggi molto elevata, magari anche di capacità marziali non trascurabili.
E invece, in questi filmetti appena appare un maschietto bianco, queste volitive giunglaiole diventano sceme -_-‘
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Non a caso Haggard scriveva nell’Ottocento: appena iniziato il Novecento il discorso cambia. La prima Jungle Girl novecentesca è la Rina di “Verdi dimore”, una mocciosetta diafana che si innamora del primo che passa! Poi arriva Tarzan e le carte si mischiano, ma finora (anni ’40) le regine della giungla rimangono semplici schiave dell’uomo bianco. Vediamo come cambieranno i costumi andando avanti…
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Per ora lo schema sessista (e pure razzista a dirla tutta) è sempre lo stesso, forse negli anni successivi, o nella loro versione a fumetti, per le Jungle girls è andata un po’ meglio. Cheers!
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Sono curioso di scoprirlo 😉
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Soliti biechi, abusati cliché e stereotipi trogloditici… peccato che Maurizio Milani non si sia mai occupato di Jungle girls 😉
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ahaha se ci avesse dedicato un libro sarebbe stato un capolavoro 😛
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