Hardware (1990) 30 anni di cyber-plagio

Quando qualcuno vuole fare un complimento ad un film di fantascienza, dice che è cyberpunk. Cosa significa? Niente, è come per le olive greche: come sono? «So’ greche». Com’è ’sto film? «È cyberpunk

Il movimento letterario (sottolineo: “letterario”) che porta questo nome è nato nel 1984 quindi Hardware che è del 1990 potrebbe rientrarci in pieno… ma, come quasi ogni altro film etichettato come cyberpunk, non lo è. Perché la storia che plagia smaccatamente è nata prima di quel movimento letterario.

Dopo aver letto la doppia storia di “Nathan Never” di novembre-dicembre, ho deciso di chiudere il 2020 festeggiando il trentennale di uno storico film a cui la Bonelli strizza palesemente l’occhio, e contiene anche una citazione scacchistica che vi racconto dal CitaScacchi. Intanto… buon Capodanno a tutti!


Indice:


Prologo
Dall’universo di Judge Dredd

Quando una casa cinematografica stringe un accordo extragiudiziale con chi l’accusa di plagio, di solito l’accusa è vera. L’unica eccezione di grande fama è Terminator (1984): dei tanti che possono vantare idee riprese dal film di Cameron, Harlan Ellison è l’ultimo che può aprire bocca, eppure è l’unico che sia stato accontentato quando ha gridato al plagio, come ho raccontato.

La scritta aggiunta alla fine del film dopo l’accusa (giusta) di plagio

La soluzione adottata per Terminator , cioè una scritta finale aggiunta in seguito, è la stessa adottata per Hardware (come attesta 2000ADonline). Non è chiaro quale delle case produttrici abbia gestito la cosa, ma a quanto pare invece di pagare i veri autori della storia – come avrebbero dovuto fare sin dall’inizio – si siano limitati ad aggiungere i loro nomi nei titoli di testa. E non c’è alcuna obiezione, perché il film è davvero un furto in piena regola, anche se decisamente migliore dell’originale.
A gridare “Al ladro!” sono stati Steve MacManus e Kevin O’Neill, sceneggiatore e disegnatore della breve storia Shok! apparsa su “Judge Dredd Annual” del 1981, che si può leggere on line.

A Megacity 2 c’è un venditore dalla faccia onesta come un dente cariato, Tombstone Toothbrush (“Spazzolino tombale”!), specializzato in oggetti da collezionismo spinto di genere unico: da lui potete comprare vari pezzi lasciati dai Giudici nelle loro avventure nella Terra Maledetta, e state sicuri che è tutta roba autentica. Autocertificata.

C’è chi si compra pezzi di aquile dei Giudici, denti di Satanus e addirittura il pregiato sputo di Judge Dredd in bottiglia, ma Mike Cobber cerca tutt’altri oggetti. La sua fidanzata Lyn è una scultrice in metallo, e non vede l’ora di portarle un pensierino dal suo viaggio. Tombstone Tootbrush ha trattato bene il suo cliente e, come da accordi, gli fa trovare uno scatolone pieno di rottami, tutti appartenuti a dei robot bellici andati distrutti in battaglia. Tutta roba regolarmente illegale.

Il vostro amichevole truffatore di quartiere, a fumetti e nel plagio filmico

Tornato a casa, all’Andy Warhol Block di Megacity 1 – torre-quartiere abitata per lo più da artisti – Mike è felicissimo di riversare nel salotto del loro appartamento i resti di uno S.H.O.K. Trooper, terribile robot programmato unicamente per distruggere il nemico.
Richiamato in missione, Mike parte di nuovo e Lyn rimane a casa da sola con dei resti robotici… che d’un tratto cominciano ad auto-assemblarsi, fino a formare una sbilenca creatura robotica che emette un solo suono: «SSSSHOKK!»

Il robot assassino è decisamente migliore nel film

Comincia una lotta selvaggia tra la donna e il robot assassino per tutta la casa, ed anche se lei riesce ad accecarlo con l’acido lo stesso la macchina è in grado di rilevare il calore corporeo. L’unica per Lynn… è spalancare lo sportello del freezer e ripararcisi dietro, così da nascondere il proprio calore.
Confuso e accecato, il robot finisce vittima del colpo finale della donna. Ma è davvero andata così? Quando Mark torna a casa, trova una fidanzata ben diversa ad aspettarlo…

I fratelli Thomas prendono appunti per il loro Predator (1987)

Chissà se questo fumetto britannico sarà finito sotto gli occhi di un giovane regista di videoclip, che però per vivere serve ai tavoli in un ristorante londinese, nella seconda metà degli anni Ottanta. Tra un documentario e un videoclip, questo giovane cineasta lavora ad un copione che conosce varie forme, fino ad assumere quella in cui copia smaccatamente il fumetto del “Judge Dredd Annual”: davvero un curioso caso di convergenza evolutiva.

La storia originale, tre anni prima che nasca il cyberpunk

La storia convince i produttori e il giovane regista può cominciare ad assemblare i suoi pezzi fino a creare un film.


Lavorazione

«Può ucciderti nello spazio d’un respiro e fare sì che vi piaccia»: così il giornalista Philip Nutman presenta il robot assassino del film su “Fangoria” n. 91 (aprile 1990). «Benvenuti nel futuro. Benvenuti in Hardware».

Stentoreo titolo di recenti rimasterizzazioni

Sul successivo numero di “Fangoria” (maggio 1990), Putnam fa notare come dalla chiusura della Hammer in pratica la produzione cinematografica britannica a basso costo si è quasi estinta, finché l’uscita di Hellraiser (1987) ha dimostrato che c’era ancora vita per storie forti a budget contenuto. «Spero che sarà come lo sballo peggiore mai vissuto», si augura il regista-sceneggiatore.
Co-produzione tra la statunitense Miramax e la britannica Palace Pictures, le riprese del film iniziano l’11 settembre 1989 a Chalk Farm (vicino Camden Town, nei pressi di Londra), stando alla rivista “Hollywood Reporter” del 24 ottobre di quell’anno, mentre “Variety” del 17 gennaio 1990 ci informa che in quel periodo il film è completato, comprese le scene desertiche che una piccola troupe è andata a girare in Marocco.

Preferisco di gran lunga lo storico titolo in 4:3

Il regista venticinquenne Richard Stanley è di origine sudafricana, ha frequentato da giovanissimo una scuola militare cattolica («all’età di 12 anni sapevo smontare e rimontare un fucile velocemente») e dopo aver esordito come regista di documentari – ed aver fatto un viaggio iniziatico dallo stregone che gli ha donato l’amuleto che ancora oggi indossa – ha voluto seguire la sua vena nomade, che l’ha portato prima a servire ai tavoli di un ristorante londinese, per mantenersi mentre dirige video musicali, poi a partire di nuovo per l’Afghanistan dove a documentare la vita quotidiana sotto l’occupazione russa.

Una foto d’epoca del nomade Richard Stanley

Sopravvissuto ad un missile comunista (o almeno così ci racconta il citato Putnam), ha camminato per tre giorni trasportando un suo amico ferito fino a trovare finalmente un campo della Croce Rossa. Subito dopo riceve un fax: i produttori hanno dato via libera al suo film Hardware.
Al giornalista così si confida Stanley:

«Volevo che la storia potesse essere letta come una sorta di versione fantascientifica di un hardboiled alla Jim Thompson o Cornell Woolrich, questo tipo di autori: una storia veloce ma tagliente. Con il budget a disposizione però è parecchio difficile.»

Girando per il set, il giornalista Putnam si accorge che sono tutti giovani, sia gli attori che i tecnici, ed è tutta gente che viene dal mondo dei video musicali quindi hanno i due pregi migliori per una produzione: lavorano in fretta e non sforano i costi. La co-produttrice JoAnne Sellar ha iniziato la sua carriera producendo il video Cold Metal di Iggy Pop diretto da Sam Raimi: diciamo che è gente con il cuore al posto giusto. «Questo è un film, non una raccolta di videoclip», specifica la produttrice: «L’unico collegamento con quel mondo è la velocità con cui si lavora».

Agli effetti speciali ci sono “Little John” Cormican e David Keen della Image Animation, direttamente da Cabal (1990), mentre allo storyboard c’è Graham Humphries, celebre illustratore ed autore di poster, che avrebbe dovuto lavorare solo due settimane invece ha finito per affiancare la produzione per cinque mesi, disegnando idee che poi finivano sullo schermo.

«Stronzate», questo il piccato commento del regista ai commenti che il giornalista gli riporta, cioè che Hardware non sarebbe altro che un furbetto rimescolamento di Terminator (1984) e Robocop (1987).

Richard Stanley nel 1990

«Se proprio deve rubare da qualcosa, allora lo fa dai film horror italiani. Sono un profondo appassionato del lavoro di Dario Argento, quindi semmai è quella l’unica influenza. Ammetto di aver passato sin troppe notti a guadare i film di Lucio Fulci: Hardware è un insieme degli stili ed idee italiane che preferisco, inserito in un ambiente classico da cyberpunk. […]
Il copione è pieno di mie personali ossessioni, legate principalmente ad Argento: la luce, la violenza, l’intensità della vita umana in conflitto con la tecnologia, il decadimento sociale. Quel tipo di idee.»

Quante belle parole, ma curiosamente non si fa menzione del fumetto di Judge Dredd ricopiato fedelmente. Comunque Stanley riconosce che quei due celebri film robotici (Terminator e Robocop) hanno reso possibile ricevere finanziamenti per Hardware che sarebbe stato impossibile se il suo film fosse stato invece un racconto horror gotico. Ma è anche vero che l’idea del film sia parecchio diversa, nelle menti del regista e dei produttori.

«[I produttori] si sono convinti a dare luce verde al progetto Hardware perché si poteva fare a basso costo, ed è stato questo l’elemento che ha chiuso il contratto. Poi però è uscito fuori che è un film molto più impegnativo di quello che credevano. La prima volta che ne abbiamo parlato potevo vederli pensare di poter ottenere Alien con meno di due milioni di dollari, e dalle loro teste fuoriusciva un rumore di registratore di cassa. Ora hanno capito che hanno per le mani un film più costoso e molto più spiacevole: ne sono deliziato, ma abbiamo litigato parecchio per questo. Ora stanno cercando di impormi certe scelte e so che nelle prossime settimane dovrò lottare parecchio per fare il film come voglio io. Ma non cederò.»

Come mi immagino Stanley sul set

Putnam sottolinea il ghigno da maniaco del regista mentre dice queste ultime frasi, segno che ci crede davvero nel progetto e crede davvero nella sua visione.

«Sono sicuro che il pubblico si aspetterà un film alla James Cameron, ma rimarrà sorpreso: se Hardware sarà un riflesso di quel tipo di film, allora vorrà dire che ho miseramente fallito.»


Distribuzione

Presentato al Festival di Cannes il 13 maggio 1990 e al Toronto Film Festival il 7 settembre successivo, esce negli Stati Uniti il 14 settembre e in Inghilterra il 5 ottobre 1990.

VHS Columbia-TriStar 1992

ItaliaTaglia.it ci informa che solamente il 26 luglio 1991 il film arriva sul tavolo della censura italiana, che rilascia il visto il 22 agosto successivo con un divieto ai minori di 14 anni, «per alcune scene di orrore che possono turbare la sensibilità dei predetti minori». Come sempre, il divieto decadrà al momento di sfruttare il grande successo del mercato dell’home video.

Comunque già una ventina di giorni prima è stato presentato al romano Fantafestival XI, e su “l’Unità” del 6 luglio il corrispondente Renato Pallavicini ne dà una critica dolce-amara: «Il film fa un po’ troppo il verso a Blade Runner e Alien, ma non è privo di un certo fascino».
Esce nelle sale italiane al meno dal 25 agosto 1991 anche se non sembra esserci rimasto molto. La Columbia-TriStar lo presenta in VHS nel marzo del 1992 a cui segue il vuoto, fino al DVD della Stormvideo del 2008, seguito poi dalla Pulp Video che nel 2012 lo recupera in DVD e Blu-ray.

«This is what you want… This is what you get»

Non so perché queste parole di The Order of Death (1984) dei Public Image Ltd mi siano rimaste scolpite a fuoco, quell’estate del 1991, quando i trailer del film imperversavano su tutti i canali. Le immagini ipnotiche del deserto rosso, del nomade e del protagonista con la mano artificiale mi contagiarono come un virus mentale e non andarono più via. Da allora le porto tutte con me.

È sin dai trailer del 1991 che questa scena è sempre con me

Mi spiace che in seguito Stanley abbia disconosciuto il film, perché ha fatto un lavoro maledettamente buono, decisamente migliore di quelli che farà in seguito.


Il Vangelo secondo Mark 13

Nella rimasterizzazione in Blu-ray appare una scritta ad inizio film, tratta dal Vangelo di Marco (13,20) nell’unica copia esistente in possesso di Richard Stanley: tutte le versioni americane di quel passo infatti usano il verso saved, quella di Stanley usa spared.

Dalla copia personale di Richard Stanley

È tratta dalla “grande tribolazione di Gerusalemme”, quando si parla di giorni terribili che stanno arrivando, e «Se il Signore non abbreviasse quei giorni, nessun uomo si salverebbe» (13,20). La particolarità dell’ultima espressione è che di solito viene tradotto “uomo” ciò che in originale è scritto “carne”, mentre in inglese rimane «no flesh should be saved»: nessuna carne sarà risparmiata. Profezia perfetta per l’ascesa di un robot assassino, un messia di metallo che porta la distruzione con sé.

La copia del Vangelo di Marco letta nel film

Un deserto di un rosso innaturale, «la natura non li conosce colori simili» ci informa Angry Bob, «l’uomo con pisello industriale che trasmette con voce livida da Radio W.A.R.»: ancora nelle interviste con Putnam la voce alla radio era di John Lydon dei Public Image Limited, ma evidentemente all’ultimo è successo qualcosa e Iggy Pop l’ha sostituito.
In questo deserto vediamo vagare un nomade misterioso e senza nome, perfetta incarnazione dello stesso Stanley: un uomo che ha vagato per continenti in cerca di qualcosa da acquisire e di qualcosa da dare.
Ad interpretarlo c’è Carl McCoy, cantante britannico del gruppo rock Fields of the Nephilim per cui Stanley aveva girato dei videoclip.

Guarda negli occhi di Carl McCoy e dispera

È la vigilia di Natale, c’è il coprifuoco – toh, come il 2020! – e “Hard Mo” Baxter non vuole tornare a casa senza neanche un regalo per la fidanzata. Così conosciamo il protagonista, interpretato da Dylan McDermott.
Al giornalista Nutman (“Fangoria” n. 97, ottobre 1990) Stanley confessa che non è stato McDermott la sua prima scelta: come protagonista avrebbe tanto voluto Bill Paxton, ma alla Miramax… non avevano mai visto Il buio si avvicina (1987)!!! Ma dove vivevano i fratelloni Bob e Harvey Weinstein?

Gli unici al mondo a non conoscere Bill Paxton!

Paxton ha anche fatto il provino e parlando con il regista ha detto di amare il ruolo, ma i Weinstein non lo conoscevano e non si sono scomodati a chiamare il suo agente: non avendo avuto più notizie, Bill ha accettato il suo ruolo in Navy Seals (1990): appena firmato, riceve la telefonata da Stanley che è riuscito a convincere i produttori. L’attore ha provato a slegarsi ma non ha trovato alcuna scappatoia al contratto appena firmato, quindi è arrivato Dylan McDermott, all’epoca un volto ancora relativamente nuovo.

Se devo essere onesto, preferisco Dylan in questo ruolo

Posso confessare che sono contento sia andata così? Adoro Bill Paxton e sarà sempre nel mio personale pantheon di attori caratteristi, ma l’arte di rendere la tristezza e la prostrazione che ha McDermott era impossibile per Bill: ho visceralmente amato la serie TV “The Practice” proprio perché McDermott riusciva in modo ammirabile a rendere un personaggio idealista ma completamente a terra.
Come se non bastasse, nelle citate interviste Stanley rivela che è stato McDermott a suggerire la scena in cui il personaggio legge quel passo del Vangelo di Marco che dà il titolo al film.

Una scena magica e poetica

Mo dovrebbe essere il diminutivo di Moses ma il nostro eroe non vuole essere chiamato così, anche se in lingua originale non vuole essere chiamato Max: giochi del miglior doppiaggio del mondo. A chiamarlo Max, o Moses in italiano, è l’amico Shades con il volto di John Lynch.
Anche questa volta la scelta del regista era un’altra: addirittura voleva Jeffrey Combs, «perché sentivo che c’era una bella chimica con Bill Paxton». Visto però che la produzione britannica imponeva solo due attori americani, cioè i due protagonisti, per Shades si è dovuto ripiegare su Lynch.
Il suo nome e il fatto che non si tolga mai gli occhiali da sole (shades) mi fa pensare ad un omaggio ai padri del cyberpunk, quelli dell’antologia Mirrorshades (1986), ma magari è solo una mia idea balzana.

Il ruolo che doveva essere di Jeffrey Combs

Mentre si trovano dal rigattiere Alvy – la versione filmica di Tombstone Teetbrush – Mo e Shades vedono arrivare il nomade misterioso: «uno che cammina molto» (A zone tripper), lo definisce Mo. Attraversando una zona il cui nome il doppiaggio italiano rende vago, «Vetro levigato, mare di dune» (Glass flats, Judas sea), il nomade ha trovato dei resti di un «androide addetto alla manutenzione» (maintenance droid) che attirano subito Mo, il quale prontamente li compra, soldi in bocca.

L’amletico Mo e il suo Yorick di metallo

Mo torna a casa con il suo bel regalo metallico nella sacca, e prende un taxi acquatico guidato da Lemmy Kilmister del gruppo metal britannico Motörhead: appena partiti, il tassista accende la radio… e guarda caso stanno trasmettendo Ace of Spades dei Motörhead!

Lemmy Kilmister accende la radio e c’è Lemmy Kilmister!

Nel suo appartamento blindato e videosorvegliato c’è ad attenderlo la rossa Jill, interpretata da quella Stacey Travis che aveva da poco esordito con Phantasm II (1988).  «La gente legge la trama e dice: “Oh, è Terminator o Aliens“, ma non è così», racconta l’attrice al citato Putnam, specificando come sia difficile ottenere ruoli così intriganti e particolari.

La rossa e diversamente simpatica Jill

Come la versione a fumetti che sta copiando, Jill crea sculture di metallo da vendere a gente ricca della città alta, ma nel film lo fa solo di notte e con la musica metal a manetta: insomma, Jill è la vostra vicina di casa preferita, appartenente a quella schiera di maleducati che andrebbero sterminati, possibilmente con estrema sofferenza. E pensare che basterebbe un paio di cuffie, ma chi mette la musica a palla non ha abbastanza intelligenza per capirlo.

Un mucchio di rottami è il regalo perfetto per una fidanzata

Mo e Jill sono due persone così incredibilmente diverse che stonano insieme, infatti non sembrano passarsela bene. Mentre lei fa roba bruttissima con la radio a manetta, lui rimane accucciato sul letto a leggere il Vangelo di Marco.

«Vedi questi imponenti palazzi? Saranno buttati giù, verranno frantumati in mille pezzi, la terra tremerà e le masse avranno fame, e i ventri si gonfieranno.

Questi dolori vi aspettano: nessuna carne verrà risparmiata.»

Mentre viene inquadrato Marco 13,35, l’attore legge prima 13,2 poi 13,20: un bel mischione, ma rende molto bene il concetto.

E intanto Jill fa sculture di rara bruttezza

Finalmente Jill rimane da sola, ignara che ha un robot bellico in casa, progettato come perfetta macchina assassina e la cui produzione è stata sospesa perché il modello creava problemi di controllo.

Il vostro robot assassino impazzito di fiducia

Quando se ne rende conto, Jill si divide in due: una parte copia fedelmente il fumetto di Dredd, usando il frigo come schermo per la vista termica ed aspettando armata la creatura robotica, ma un’altra parte si ricorda del Mamba (1988) di Mario Orfini interpretato da Trudie Styler, futura moglie di Sting. Lì la protagonista – guarda a volte il caso – rimaneva chiusa in casa da sola con un serpentone velonoso che la inseguiva: visto che Stanley era così attento al cinema italiano, chissà se l’ha visto…

Doppia scopiazzata volante!

Mark 13 passa accanto alla donna “gelata” con una scena che ricorda da vicino quella di Predator (1987), con la creatura che non vede Schwarzy pieno di fango, ma come visto era già tutto nel fumetto originale.

Forza, parlatemi ancora di robot domestici…

Malgrado sia un’opera non originale, comunque Stanley deve inventarsi un modo per riempire un film avendo per le mani solo qualche pagina di fumetto, quindi ci dà dentro e onestamente tira fuori oro puro, costruendo fili narrativi da tirare al momento giusto, introducendo personaggi che faranno comodo in momenti chiave e inventando modi perché la protagonista possa sfuggire ad un robot assassino in una casa minuscola. Mi sento di dire che Stanley è riuscito pienamente nell’intento, e ancora oggi credo che  Hardware sia un film che funzioni, quasi del tutto privo com’è di riferimenti al momento particolare in favore di temi universali.

Cosa c’è di più universale della bella aggredita in doccia?

L’ambiente claustrofobico regala grande emozione al tutto: all’epoca chi rimaneva assediato in casa aveva centinaia di metri quadrati dove scappare, ma la povera Jill ha giusto una camera e cucina da condividere con il suo carnefice, quindi si apprezzano ancora di più le idee per far andare avanti la storia, riuscite o meno che siano.

Ci siamo già scontrati in salotto?

In un periodo in cui “il nemico in casa” era un genere che andava parecchio – l’italano Mamba (1988), il francese Un minuto a mezzanotte (1989) e versione americana Mamma, ho perso l’aereo (1990), giusto per citare i più famosi – Hardware può andare a testa alta, malgrado in seguito l’autore non abbia più avuto un buon rapporto con il suo film.


Conclusione
Il nomade torna nel deserto

Tre anni dopo gli entusiastici articoli di Philip Nutman, il giornalista Mark Salisbury di “Fangoria” incontra di nuovo Richard Stanley (per il n. 125, agosto 1993) e lo trova un uomo distrutto. La post-produzione di Dust Devil, film molto più personale e nella sua mente molto più “cinematografico” di Hardware, lo sta massacrando, viste tutte le litigate che deve fare con la Miramax, dove i fratelloni Weinstein sono lì con le forbici in mano a tagliar via decine di minuti per la distribuzione americana.
Il discorso finisce inevitabilmente su Hardware, sulla cui riuscita il regista ha del tutto cambiato opinione: ormai per lui è un film dimenticabile, un errore che fa gavetta.

«Dopo l’uscita del film un sacco di gente ha detto che avrei dovuto continuare a dirigere spot pubblicitari, e che Hardware aveva troppo lo stile da videoclip, il che mi fa davvero arrabbiare. Ero limitato dal girare con due soldi, con un mostro che non era altro se non un braccio su un bastone o una testa su un bastone: ecco perché ho dovuto usare un montaggio serrato con molti stacchi d’inquadratura.»

Dalle parole del regista risulta chiaro che non considera più “suo” il film, che con Dust Devil ha voluto creare l’esatto opposto: una storia di ampio respiro in esterni, non rendendosi conto degli elementi chiave che rendono immortale Hardware.
Proprio il suo stile diverso, il suo gusto estremo e ruvido, lo rendono unico, in un periodo in cui opere di “fantascienza sporca” ne fioccavano parecchie, raramente però del livello visivo di Stanley.

Mark 13 incastonato nell’opera d’arte (brutta) di Jill

Come diceva Picasso, “il mediocre copia, il genio ruba”, e visto che la frase non era sua è chiaro che il metodo funzioni. Hardware è innegabilmente il plagio smaccato di Shok, ma ha saputo rendere la storia così corposa, ricca e di grande effetto che non si può far altro che considerare questo l’originale. Visto poi che compie trent’anni ma sembra giovanissima, direi che l’operazione è stata un successo. Ma ormai Stanley… è già partito per uno dei tanti viaggi nomadi che compirà nella sua vita.


Fonti

  • Philip Nutman, “Monster Invasion”, da “Fangoria” n. 91 (aprile 1990)
  • Philip Nutman, The Nuts and Bolts of Hardware, da “Fangoria” n. 92 (maggio 1990)
  • Philip Nutman, On Robots and Ratings, da “Fangoria” n. 97 (ottobre 1990)
  • Mark Salisbury, Left in the Dust, da “Fangoria” n. 125 (agosto 1993)

L.

P.S.
E ora, tutti su La Bara Volante.

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Informazioni su Lucius Etruscus

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26 risposte a Hardware (1990) 30 anni di cyber-plagio

  1. Pingback: Nathan Never contro Mark 13 (2020) – Fumetti Etruschi

  2. Pingback: Hardware (1990) | CitaScacchi

  3. @bluebabbler ha detto:

    Plagio o non plagio, per me ai tempi del VHS è stato un film bellissimo. Chissà a rivederlo oggi… Come è invecchiato?

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  4. Vasquez ha detto:

    Wow! Finale col botto Lucius!
    Non sapevo dell’accusa di plagio, ed è un peccato che Stanley sbbia mis-dis-conosciuto il film (ma perché poi?): angosciante, sporco, fastidioso come l’hard rock a tutto volume di notte, mi piacque allora e mi piace ancora adesso. Anzi forse adesso riesco ad apprezzarlo ancora di più, come hai giustamente sottolineato, si “eleva” dal suo momento e ci regala oro trattando temi che saranno buoni anche fra 30 anni.
    Comunque non dimenticarti che per molti “Blade Runner” è il manifesto del cyberpunk: basta che piova su una metropoli futuristica. Un po’ come l’hard boiled: se c’è un investigatore con l’impermeabile e una voce fuori campo vuoi che non sia hard boiled?
    Vado nell’universo parallelo dove hanno scelto il caro Bill come protagonista: un’occhiata se la merita quel film, dai.
    Buona fine e buon inizio. Ho una certa idea che saranno identici e perfettamente sovrapponibili, ma la speranza è l’ultima a morire…😉

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      Blade Runner, nato due anni PRIMA che nascesse il cyberpunk, è il re dei film male etichettati. Siccome in realtà il suo successo è nato solo nel 1991, con il Director’s Cut, e in quell’epoca il termine veniva (ab)usato a dismisura, ecco che il connubio è perfetto. Curiosamente chi definisce un film cyberpunk poi non aggiunge altro: è come se non si potesse dire altro, dopo quello 😀

      “Hardware” rivisto oggi non ha perso un grammo della sua miticità, della sua potenza visiva e della sua ruvida innovatività, pieno com’è di idee e di voglia di stupire. Se avessero attribuito sin da subito l’origine al fumetto non sarebbe cambiata una virgola, ma forse Stanley voleva passare per autore e aveva bisogno di iniziare col botto.
      E poi, come sempre, avere pochi soldi è il modo migliore per spingere un regista a dare il meglio di sé, se è capace. E qui Stanley è decisamente capace.

      Buon anno anche a te. Al 2021 basterebbe davvero poco per essere meglio del 2020, ma temo lo stesso sarà una cosa dura…

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      • Giuseppe ha detto:

        Intanto ti arrivi (e arrivi a tutti noi Zinefili) un Buon anno anche dal sottoscritto, pur rimanendo il clima generale non certo dei migliori… Quanto al plagio sono sorpreso sì anche se, in fondo, solo fino a un certo punto: se Richard Stanley doveva proprio smaccatamente plagiare qualcuno, al di là dei proclami ufficiali circa le fonti d’ispirazione (se mi citi Argento e Fulci mi sta bene comunque), allora questo qualcuno non avrebbe potuto che trovarsi fra i migliori, DROKK! 😉
        E sì, “Hardware” è invecchiato benissimo (anche con Dylan McDermott al posto del compianto Paxton), nonostante Stanley non sia più così entusiasta nei suoi confronti…
        P.S. “Color out of space”? Supera momentaneamente la tua ritrosia lovecraftiana e dagliela, un’occhiata 😉

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      • Lucius Etruscus ha detto:

        Spingitori di Color out of Space, su Zinefilo Channel! 😀 😀 😀
        Scherzi a parte, dovrei vederlo anche solo per capire dove quel nomade di Stanley è riuscito ad arrivare, nel suo eterno peregrinare.

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  5. Cassidy ha detto:

    Ti devo una serie di ringraziamenti, sia per me tante citazioni, sia per avermi fatto conoscere una storia di Dredd che mi manca ma soprattutto per il finale di anno con il botto, Richard Stanley é un genietto visivo e questo suo film va ricordato il più possibile, anche se ho scoperto grazie a questo post essere un plagio, d’altra parte Stanley anche nei suoi film successivi ha dimostrato di essere appassionato di cinema italiano, citando spesso Argento e Sergio Leone, quindi ha cominciato la sua carriera proprio come Leone 😉 Cheers

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      Stanley è un geniaccio visivo che avrebbe dovuto lavorare molto di più, e soprattutto… sempre senza soldi! E’ uno di quelli che danno il massimo sotto pressione, e che appena hanno due spicci li sprecano in robe inutili.
      “Hardware” rivisto oggi è ancora una bomba, non è invecchiato d’un giorno, e ancora oggi è “diverso” come lo era nel 1990, risultando quindi unico e di gran carattere. Ad avercene di film così 😉

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  6. Evit ha detto:

    Buon anno, metallaro!

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  7. Conte Gracula ha detto:

    Non l’ho visto (figuriamoci se le mie lacune non mi azzoppano in qualche modo 😛 ). Sembrerebbe adatto alla definizione di storia da assedio, in qualche modo…

    Comunque, è sconvolgente come i Weinstein finiscano per scombinare ogni cosa, in un modo o nell’altro, con una certa superficialità (che non è il difetto peggiore di uno dei due 😛 ).

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      Sono Signori della Z da fin troppo tempo, è un miracolo che sia uscito qualcosa di buono da quei primi Novanta in cui imperversavano 😛
      Questo film te lo consiglio caldamente, sempre tenendo presente che è un minuscolo prodotto a basso budget, o forse proprio in forza di questo. Ha trovate visive molto intriganti e se ti lascia andare al flusso psichedelico ti piacerà di più ^_^

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  8. Willy l'Orbo ha detto:

    Hardware, in primis, ma anche, sulle ali delle citazioni, Hellraiser, Dredd, Robocop, Terminator…quante carne al fuoco: la gusterò spizzichi e bocconi in giornata tra un preparativo per stasera e l’altro (invero, non troppi e non troppo impegnativi, come preparativi).
    In ogni caso, a naso, mi pare un giusto post per finire un anno purtroppo quasi fantascientifico (appunto) nel senso distopico del termine: e allora il mio augurio è che la distopia del 2020, si trasformi nel 2021 in qualcosa di più simile ad un’utopia di matrice campanelliana! 🙂
    Auguri a tutti gli zinefili, innanzitutto a sua maeZtà Lucius! 🙂

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      Visto che i protagonisti di “Hardware” passano le feste natalizie sotto il coprifuoco, direi che è davvero molto poco distopica come storia e purtroppo verosimile.
      Augurissimi di buone feste e che il 2021 porti tanta Z a tutti ^_^

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  9. Il Moro ha detto:

    fantastico articolo e fantastico film, non sapevo nulla del plagio!

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      Anch’io l’ho scoperto in questi giorni, ma non ha intaccato il mio amore per il film 😉
      Da notare come all’epoca ancora non tirasse pubblicizzare le origini fumettistiche di un film: in tempi recenti dei film di fantascienza si sono inventati fantomatici fumetti da cui erano tratti. Come cambiano i tempi 😀

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