Jackie Chan Story 26. Rush Hour 1

Continua il viaggio agli albori della carriera di Jackie Chan, mediante la sua corposa autobiografia I am Jackie Chan. My Life in Action (1998), eventualmente integrata con l’altra autobiografia Never Grow Up (2015). Sono entrambe inedite in Italia, quindi ogni estratto del testo riportato va intendersi tradotto da me.

Dopo quindici anni di tentativi infruttuosi, nel giro di un attimo il pubblico americano impazzisce per Jackie Chan, quindi la New Line Cinema, dopo aver comprato i suoi nuovi film di Hong Kong (Terremoto nel Bronx, Thunderbolt, First Strike e Mr Nice Guy, con in arrivo il documentario My Stunts), vuole fare il salto di qualità e che Jackie partecipi ad un film prodotto dagli americani.

Come già detto, dalla metà degli anni Novanta il nostro eroe ha partecipato a infiniti incontri con produttori statunitensi, tutte chiacchiere senza alcun risultato, tanto che Jackie continua a girare i suoi film senza pensare agli Stati Uniti, che amano fare riunioni molto più che fare film. A metà delle riprese di Mr. Nice Guy – quindi all’incirca nel 1996 – Jackie riceve una telefonata da Willie Chan che gli preannuncia buone notizie dal suo agente americano. «Un film con Spielberg?» è la risposta sarcastica del nostro, a testimoniare quanto poco creda nella cosa. No, non c’è Steven che l’aspetta, bensì una stella a suo nome sul pavimento di Hollywood.

Il 5 gennaio 1997 Jackie lascia la sua impronta su una delle tante “mattonelle” di quella strada di mattoni gialli che è Hollywood, e subito dopo inizia le riprese di un film americano. Può sembrare un’occasione d’oro, e sicuramente lo è, può sembrare una “promozione” e sicuramente lo è… ma è difficile spiegare al re che ora deve fare lo stalliere.


Indice:


Scontro culturale

Stando al documentario A Piece of the Action, contenuto nel DVD di Rush Hour, è stato il regista Brett Ratner a fare il nome di Jackie con il produttore Roger Birnbaum, poi entrambi sono volati fino in Sud Africa per incontrare l’attore: «Jackie, devo assolutamente fare questo film con te», gli avrebbe detto Ratner, rimanendo a sua disposizione per qualsiasi progetto il nostro eroe volesse intraprendere, rimanendo più che contento che sia stato scelto quello dal titolo Rush Hour: «fra tutte le sceneggiature che ho letto è di gran lunga la migliore». Quindi è stato subito idillio? Per gli americani pare di sì, ma non è stato lo stesso dall’altra parte.

Nell’audio-commento dell’edizione internazionale di In fuga per Hong Kong (1999) Jackie ne approfitta per sottolineare le differenze tra cinema americano e quello asiatico: quando gira ad Hong Kong è un divertimento, quando lo fa negli Stati Uniti è un lavoro. Mi sembra una spiegazione perfetta.

«[In America] non riesco a farmi coinvolgere da molte cose, solo dalle scene d’azione e dal relativo montaggio, è tutto. Molte volte, anche volendo farmi coinvolgere, non saprei come fare, perché la sceneggiatura è in inglese: come posso dire qualcosa al regista con il mio inglese? Come posso dare indicazioni a Chris Tucker riguardo ad un dialogo? E come può farlo lui a me? La maggior parte delle volte non so neanche le regole americane. Non posso muovere o toccare la cinepresa per via dei loro sindacati.»

Ad Hong Kong Jackie è il re, ha potere di vita e di morte su tutto e tutti, sul set: ritrovarsi a starsene seduto in una roulotte ad aspettare che il re americano chiami il giullare cinese perché faccia ridere il pubblico non è proprio un’esperienza che faccia piacere al nostro eroe. Non c’è cattiveria nell’agire americano, ma sono universo troppo distanti per capirsi. Scrive Jackie nella sua autobiografia del 1998:

«La produzione non ha risparmiato nulla per farmi sentire una star. Mi avevano riservato una casa bellissima, sul set avevo una roulotte di lusso, un allenatore personale, un’auto costantemente a mia disposizione e persino i miei stuntman avevano le loro stanze private. Nei miei film di Hong Kong ci strizziamo tutti nello stesso spazio, condividiamo tutto quel che c’è e mangiamo tutti insieme, servendoci dalla stessa pentola. Faccio tutto ciò che voglio: sono il regista, il produttore, l’operatore, l’attrezzista e il custode. Tutto. Qui [in America] non mi fanno fare niente, se non recitare. Non mi lasciano neanche rimanere sul set per misurare le luci: hanno un tizio alto come me, con il mio stesso colore di pelle e con i miei vestiti da utilizzare, mentre io me ne devo stare chiuso in roulotte

Non dimentichiamo poi che persino in un momento in cui Jackie Chan è un divo, in cui cioè i suoi film strapieni di scene d’azione sono richiestissimi, è impensabile che una casa produttrice americana dedichi all’azione più del minimo sindacale, il che significa passare dieci giorni a girare una scena parlata… e due giorni per una d’azione. Questo fa impazzire Jackie, che in più è costretto a parlare in lingua inglese e l’ha sempre detestato.

La faccia di Jackie quando deve parlare in inglese

Sempre nell’autobiografia Jackie racconta un aneddoto per illustrare lo “scontro culturale” cui ha assistito in questa esperienza hollywoodiana. Il primo giorno di produzione insieme al regista Brett Ratner va a studiare la scena in cui deve entrare in una villa passando per un’alta finestra, ed essendo il suo campo preferito al nostro eroe basta un’occhiata: ci sono degli alberi, un salto qui, un salto lì, e la finestra è raggiunta, a diversi metri dal terreno.

Il regista non capisce, non essendo abituato allo stile di Jackie, così il nostro si toglie le scarpe e in un baleno – zac, zac, zac – salta dagli alberi alla finestra. Il regista è contentissimo, è qualcosa di sorprendente e fissa subito la scena. Nei giorni successivi, alla prima occasione Jackie si toglie le scarpe e ripete la scena, per memorizzarla. Arriva finalmente il giorno delle riprese, tutte le cineprese partono, Jackie salta sul primo albero e… «Stop!»

Fermo così, Jackie, che c’è un problema assicurativo

L’urlo arriva dai produttori della New Line, che iniziano a mangiarsi vivo il regista: è pazzo a girare scene così palesemente in violazione delle norme di sicurezza statunitensi? Bastonato dalla produzione, Ratner è costretto a far indossare a Jackie un numero ingente di protezioni, troppe perché la scena sia fluida come previsto, ed inoltre tocca cambiare posizione a tutte le cineprese, per riprendere Jackie in modo che non si vedano tutte le protezioni messe in campo.

«Non sto dicendo che sia sbagliato prendere precauzioni, specialmente in scene dove la vita dell’attore è messa a rischio, ma ad Hong Kong confidiamo che il nostro allenamento ci protegga anche quando non ci sono altre protezioni. Nessuno è mai morto durante la lavorazione dei miei film: ferite tante, ma niente che stronchi una vita o una carriera. Abbiamo sistemi diversi.»

Jackie scopre che a Hollywood certe cose non si possono fare

I “sistemi diversi” si riferiscono anche ai contenuti, non solo alla tecnica.


Da Supercop a strambo sbirro

Sin dai tempi di Charlie Chan (1925) e dal suo meno fortunato successore Mister Moto (1935), la narrativa americana adora i poliziotti cinesi, con quel loro gusto esotico, la parlata buffa, le citazioni da Confucio e secchiate di stereotipi razzisti vari: sono così divertenti e buffi. Quando negli anni Settanta la Golden Harvest, forte dei soldi guadagnati dai film di Bruce Lee, apre una succursale negli Stati Uniti e comincia a girare film su suolo americano, non stupisce che abbia iniziato proprio con un poliziotto cinese, quello che in Massacro a San Francisco (1974) deve affrontare il boss cattivo Chuck Norris.

La Golden Harvest aveva previsto tutto nel 1974!

La casa prova a sfatare il mito del poliziotto cinese tutti sorrisi, inchini e citazioni confuciane, ancora ben radicato nel pubblico occidentale, così presenta addirittura la versione cinese di Callaghan, con Il drago di Hong Kong (1975), anche se Jimmy Wang Yu non ha proprio la faccia del duro.

E l’ispettore Callaghan… muto!

Mentre la concorrente Shaw Bros parla di “educazione criminale” con Il padrino di Chinatown (1977), girato a San Francisco, la Golden Harvest non rinuncia ai suoi sbirri, e per l’occasione chiama Robert Mitchum ad affiancare George Cheung: due perfetti “strambi sbirri di menare” per Poliziotto privato: un mestiere difficile (1977).

Curiosità: George Cheung farà una piccola apparizione in Rush Hour, come autista della bambina

Essendo de coccio, la casa non molla la presa: gli americani amano troppo i polizieschi, dobbiamo insistere. Così al secondo tentativo (fallimentare) di far conoscere Jackie agli americani ecco The Protector (1985), dove torna un volto noto bianco ad affiancare il protagonista cinese: Danny Aiello.

Danny, sei bravo, ma mi sa che hai la pelle del colore sbagliato

Tutti questi sforzi non sembrano funzionare, gli stereotipi sui poliziotti non sembrano avere avuto un calo negli anni Ottanta, invece qualcosa è davvero cambiato: l’idea degli strambi sbirri di menare diversamente colorati funziona alla grande. Prendere un cinese che mena e affiancargli una minoranza locale con altre capacità è un canone che viene cristallizzato nel punto più impensabile: in una scuola di polizia!

Brian Tochi salta in scena per creare un canone

Mentre gli italiani come al solito sono arrivati prima senza saper sfruttare a pieno l’idea – basti pensare al “kung fu western” anni Settanta con attori di varia etnia, che abbiamo sempre disprezzato come filmacci di serie Z – un anno dopo The Protector la Warner Bros presenta un nuovo episodio di una sua saga di grande successo, Scuola di polizia 3: Tutto da rifare (1986), dove arriva un nuovo cadetto giapponese, Nogata, interpretato da quel Brian Tochi che avrebbe indossato il guscio della tartaruga ninja Leonardo nella trilogia filmica. Sembra un segnale con cui una delle più grandi case hollywoodiane informa il pubblico che il “poliziotto che mena” è un nuovo canone della narrativa popolare, ma non solo: Nagata viene affiancato al tenente Jones, interpretato da quel Michael Winslow che nei suoi spettacoli comici fa spesso parodie marziali, ed ecco l’accoppiata cromatica giusta per due strambi sbirri di menare.

Ora sì che i colori sono azzeccati!

Quel 1986 nasce pressoché identica l’interazione futura tra Jackie Chan e Chris Tucker, quasi come se fosse nato un canone per le coppie di quel “colore”… o forse no?

Sicuramente sarà un caso…

La mia è solo una malignità, perché malgrado le somiglianze siano incredibili ci sono le prove che Scuola di Polizia 3 non sia stato usato come base per il celebre combattimento di Rush Hour: il citato documentario A Piece of the Action riserva la lunga parte finale a mostrare una ripresa fatta sul set proprio mentre Jackie crea sul momento la coreografia, cercando di convincere il regista. Brett Ratner infatti ha concepito una scena semplicemente ridicola: il poliziotto cinese entra nella stanza piena di criminali, tira fuori la pistola… ma no, lui non usa la pistola, e la getta dalla finestra iniziando a combattere a mani nude. Jackie è disgustato dall’idea, che in effetti è parecchio stupida, così convince il regista a cambiarla, creando una complicata coreografia che giustifichi (come infatti vediamo nel montaggio finale) come mai la pistola gli venga strappata di mano e voli via dalla finestra.

Jackie in piena fase creativa

Lì, su due piedi, Jackie crea la coreografia del combattimento spalla a spalla con Chris Tucker, ma certo a voler essere maligni – data l’incredibile somiglianza con il film del 1986 – quando inizia lo studio della coreografia Jackie ha già avuto l’idea del tipo di interazione fra i due protagonisti (strette di mano, calci laterali, battiti di mano, strilli, ecc.) e guarda caso sono proprio le uniche idee di cui non vediamo la “nascita” ad essere identiche a Scuola di Polizia 3. Senza dimenticare che nel montaggio finale di Rush Hour è stata tagliata la scena in cui Jackie e Tucker si battevano le mani urlando, cioè ricopiando esattamente quanto fatto dai due predecessori del 1986. Zio Giulio diceva che a pensar male spesso ci si azzecca…

A pensar male si fa peccato…

… ma spesso ci si azzecca!

La Golden Harvest ha provato per anni a presentare al pubblico americano un poliziotto cinese serio, fallendo miseramente: per gli americani l’unico cinese buono è quello che sorride e parla strano, quindi un personaggio semi-comico, e Jackie risulta perfetto per il ruolo. Visto l’enorme successo di pubblico di Rush Hour – che stando ad IMDb già nel primo fine-settimana di programmazione è rientrato dei costi! – è chiaro come un poliziotto cinese serio è ancora fuori discussione, all’alba del ventunesimo secolo.

Gli unici “strambi sbirri di menare” di successo


Distribuzione

Il film esce nei cinema americani il 18 settembre 1998 ma arriva in Italia solamente dal 4 febbraio 2000, con il titolo Rush Hour. Due mine vaganti.

Da luglio del 2000 è disponibile in VHS Warner Home Video nelle nostre videoteche, mentre porta la data del gennaio 2001 l’edizione in DVD: la New Line Cinema stessa ristampa il DVD nel 2010, ed è questa l’edizione che ho io.

Tele+ bianco lo trasmette a pagamento nella prima serata di venerdì 27 luglio 2001, mentre sarà RaiDue a presenterlo in chiaro la prima serata di venerdì 12 dicembre 2003. Stando a FilmTV.it il film sbarca su Italia1 dal 3 dicembre 2008.


Due mine vaganti

Quel giorno in sala mi sono divertito, lo ammetto, perché vedere Jackie su grande schermo è stato un bello spettacolo, sebbene abbia dovuto dimenticare la mia passione marziale. Rush Hour ha giusto un paio di minuti che potrebbero essere definiti “alla Jackie Chan”, cioè il combattimento nel ristorante cinese, quando non a caso si circonda dei suoi fedeli collaboratori…

Il fido Andy Cheng (al centro) e (a destra) la guardia del corpo di Jackie, diventata stuntman

… e di un “infiltrato” di alto profilo.

James Lew (a destra), cioè il nuovo re asiatico degli stuntman marziali di Los Angeles

Il resto è una divertente commedia poliziesca di “strambi sbirri” (espressione che, vorrei ricordarlo, ho rubato da Cassidy). L’agente Carter (Chris Tucker) è un pasticcione che però sa seguire le piste giuste, e per toglierselo di mezzo l’FBI gli affianca l’agente di Hong Kong Lee (Jackie) per fargli da guida turistica. I due non ci stanno ad essere messi da parte e, pasticcio dopo pasticcio, riusciranno là dove l’FBI non ha saputo fare nulla. Insomma, lo schema classico dei due protagonisti improbabili che divertono perché riescono a salvare la situazione malgrado sembrino due babbei: strambi sbirri, appunto.

L’imperdibile ciclo di Cassidy!

Rivisto oggi ho rinnovato il giudizio, è un film divertente che merita di essere visto, dimenticando però concetti come “azione” o addirittura “ari marziali”, tutta roba ignota a questo titolo. Jackie può fare quello che vuole in patria, ma in America nel 1998 con “azione” si intende “nessuno fa niente”, e guai a sgarrare. Appena finito di stare in roulotte, il nostro eroe potrà tornare a lavorare ad Hong Kong. Anche perché ora le mani libere… anche se a caro prezzo.

A Jackie, in America, tocca rimanere seduto

Mentre sta girando la scena della rissa nella sala da biliardo di Rush Hour, Jackie riceve la fatale notizia: Leonard Ho è venuto a mancare. Non è morto solo il potente produttore della Golden Harvest, che quasi vent’anni prima ha creduto in lui e gli ha dato la possibilità di diventare il divo che è diventato, è morta anche e soprattutto la figura paterna più importante della sua vita, tanto che lo definirà sempre il suo “padrino”. Leonard Ho è stato una guida morale e un maestro di vita per Jackie, oltre che una spalla su cui sfogarsi e una fonte costante di risoluzione di problemi. Jackie è disperato e racconta di aver pianto a lungo, ma dopo il dolore… c’è un triste senso di liberazione.

Ancora nella biografia del 2018 Jackie specificherà che porta sempre Leonard Ho nel cuore, ma questo non vuol dire che la sua perdita non abbia generato un senso di “libertà”: dopo vent’anni in cui ha dovuto seguire le regole del suo padrino, ora il nostro eroe può fare tutto quello che Ho non voleva. Per esempio questi non voleva che Jackie interpretasse commedie romantiche, genere che si vendeva male all’estero e non gli avrebbe garantito un buon ritorno economico, oltre che infiniti problemi con le sue fan esagitate, e appena “libero” Jackie gira In fuga per Hong Kong. Negli anni a seguire a Jackie capiterà di morire nei film e di tagliarsi i capelli, due gesti che Ho gli ha assolutamente vietato ai tempi dell’operazione al cervello di Armour of God (1987), ma ogni volta Jackie spera che suo padre lo perdoni. Un eroe deve andare anche dove suo padre non vorrebbe.

(continua)


L.

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12 risposte a Jackie Chan Story 26. Rush Hour 1

  1. Il Moro ha detto:

    Credo che questo sia il film che, più di tutti, ha fatto conoscere Jackie Chan al “grande” pubblico (al di fuori della Cina), anche a quelli che non hanno mai guardato un film “di menare” prima. O forse è solo perché è il primo suo film che ricordo di aver visto io, complici anche le decine di repliche televisive.

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      Il passare continuamente in TV, da quando nel 2008 se l’è comprato Mediaset, sicuramente ha aiutato, così come l’essere uscito nei nostri cinema al contrario di quasi tutti i precedenti film è stato un bel lancio, e non mi stupirebbe che il pubblico generico, che non frequentava videoteche e non aveva Tele+, possa aver conosciuto Jackie con questo film, ma in America è stato molto diverso: Jackie è stato chiamato a fare questo film solo perché dal 1996 in cui è uscito “Terremoto nel Bronx” era diventato un fenomeno inarrestabile, grazie alla enorme campagna pubblicitaria della New Line Cinema che ha spinto anche i suoi successivi tre film di Hong Kong. Con quattro film recenti e la riscoperta dei classici, già nel 1998 Jackie poteva essere co-protagonista di un film diretto ad un pubblico generico.
      Ovvio che questo Rush Hour non c’entra niente con i film di Jackie, men che meno con un film di arti marziali, per questo ha funzionato: è nato nel momento in cui il cinema marziale è morto ed è nato il “finto marziale” alla Keanu Reeves: gli americani volevano vedere tre, massimo quattro fotogrammi di falsa marzialità e riempirsi la bocca dicendo “va’ che arti marziali!” e “Rush Hour” è perfetto 😛

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  2. Cassidy ha detto:

    Ma sai che io avevo sempre un senso di già visto guardando quella scena? Ho pensato fossero le dinamiche da strambi sbirri (grazie per la citazione, un onore), in realtà forse era aver visto tutti quegli “Scuola di polizia”, in ogni caso il post è fantastico, il racconto del salto di Jackie il la conclusione sono le parti che ho apprezzato di più. L’insofferenza di Jackie per il modo di lavorare americano dice molto della differenza di cultura, pensare che buona fetta del pubblico qui da noi lo conosce solo per quei film americano che lui considera solo lavoro. Cheers!

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      Spiega anche perché abbia lavorato così poco con gli americani 😉
      E’ davvero difficile non pensare ad una derivazione da “Scuola di Polizia 3”, visto che in pratica i due protagonisti eseguono le stesse identiche mosse: come dicevo, a pensar male… 😛

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  3. Willy l'Orbo ha detto:

    Il film che praticamente mi ha “introdotto” a Jackie, un film divertente a dir poco!
    A questo aggiungi un post infarcito con tante informazioni da sottolineare, come l’aneddoto sulla dinamica albero-finestra e, perciò, le differenze culturali e di approccio che emergono da diverse cinematografie, o come il “parallelismo” con “Scuola di Polizia 3” o ancora come la reazione dopo il venir meno di Ho…
    Tanta roba per un post che è…tanta roba! 🙂

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      E’ un film che credo risulti divertente ancora oggi, con uno stile sbarazzino e protagonisti cotti al punto giusto 😉

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      • Giuseppe ha detto:

        In effetti, per molti di noi “Rush Hour” è stato il primo ingresso ufficiale nel “Jackieverse” 😉
        Illuminante la descrizione di Jackie riguardo al differente modo di fare film fra Hong Kong e USA (una differenza inconciliabile, decisamente), con l’aneddoto della scena d’azione pesantemente ridimensionata dall’intervento dei produttori a ribadire il tutto.
        Un duro colpo poi la morte di Ho, autentica figura paterna per Jackie…allo stesso tempo, un doloroso passaggio per raggiungere quella libertà che il mentore, come ogni padre spinto dalla incrollabile convinzione di agire sempre e solo meglio per il meglio dei propri figli, probabilmente nemmeno si era mai accorto di negargli.

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      • Lucius Etruscus ha detto:

        Indubitabilmente i consigli di Ho hanno funzionato, e una volta che si è tolto lo “sfizio” di fare il contrario di quanto consigliato dalla figura paterna – passaggio obbligato per ogni figlio – Jackie è tornato sempre sui binari sicuri impostati per lui.
        Curioso che il film che segna in un certo modo la fine del Jackie classico, e l’inizio del Jackie “americano”, ha invece segnato un momento di riscoperta dell’attore 😛

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  5. loscalzo1979 ha detto:

    Rush Hour è una saga che adoro con due attori che si vede si sono divertiti un sacco nei ruoli e a fare squadra assieme

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