Friday the 13th – The Jason Strain (2006)


Fallita la saga cinematografica, se volete nuove avventure di Jason dovete andare in libreria.

Continua il “nuovo universo classico” di Friday the 13th e la “Black Flame” apre l’anno, quel gennaio 2006, presentando il romanzo The Jason Strain, di Christa Faust.


Indice:


La trama

Un nuovo controverso reality televisivo mette dei detenuti uno contro l’altro, in una lotta all’ultimo sangue, e Jason viene presentato come protagonista d’eccezione. Intanto un eccentrico milionario vuole ottenere un campione del DNA di Jason per scoprire il segreto della sua immortalità, ma tutto va terribilmente storto: il “Jason Strain”, un virus altamente contagioso che rende le sue vittime invulnerabili e immortali, ma le riempie anche della rabbia e della frenesia omicida di Jason, viene scatenato tra gli ignari concorrenti.


Il Capitolo 1

Dina era sola su uno stretto sentiero sterrato che si snodava tra antichi alberi coperti di muschio, il debole raggio della sua torcia penetrava a malapena nell’oscurità sempreverde. Dina era una donna di città e odiava tutta questa faccenda degli insetti, della terra e del verde. Era nata nelle terre desolate, ma aveva vissuto nella giungla al neon per così tanto tempo che aveva sviluppato il disprezzo di una ragazza di città per i cosiddetti “grandi spazi aperti”. Le era stato ripetutamente assicurato che questa raccapricciante escursione di mezzanotte sarebbe valsa la pena. In piedi lì, tremante per il freddo fuori stagione, non ne era così sicura.
I boschi erano silenziosi, di un silenzio teso e pieno di attesa che scuoteva i nervi di Dina e la rendeva ansiosa. Non c’era quella solita orchestra notturna di piccole creature che cercavano l’amore, uccidevano ed erano uccise, l’intera area intorno al lago sembrava innaturalmente deserta, abbandonata da qualsiasi essere vivente. Tranne, ovviamente, per le onnipresenti zanzare. Quei maledetti insetti non sembravano averne mai abbastanza del suo sangue. Quando era piccola, sua madre diceva che gli insetti la adoravano perché era così dolce. In quel momento avrebbe dato qualsiasi cosa per essere invece amara. Si diede una pacca sulla coscia nuda e si grattò un morso sotto l’orlo dei pantaloncini troppo corti, chiedendosi dove diavolo fosse andato Brian.
Un attimo fa era lì, proprio dietro di lei.
«Brian?» chiamò, mentre il raggio della torcia tremolava nervosamente sui tronchi nodosi e sui rami simili a dita ricurve e tese. «Brian, dài.» Quando mani ruvide la afferrarono da dietro, il suo primo istinto fu di lasciare che il suo aggressore la prendesse. Certo, sapeva che doveva essere Brian, quindi si ricordò del motivo per cui era lì e poi lanciò uno strilletto, lasciando cadere la torcia a terra. «Boo!» disse Brian, ridacchiando e facendo scivolare una mano sotto la canottiera della ragazza.
«Stupido», gridò Dina, roteando gli occhi e spingendolo via. «Cresci!»
Si chinò per recuperare la torcia elettrica, assicurandosi che Brian riuscisse a dare una bella occhiata al suo sedere sotto i pantaloncini a vita bassa. Era il primo collega di lavoro con cui fosse mai uscita. Anche se all’inizio lei era stata alquanto insicura dell’idea, lui era terribilmente sexy: corpo sodo e ben allenato, con spalle larghe e vita snella; viso bello ma robusto, non troppo grazioso; occhi scuri e un senso dell’umorismo goffo e autoironico. Si ritrovò a chiedersi se quella notte sarebbe stata la notte in cui avrebbe finalmente ceduto e sarebbe andata a letto con lui.
«Chi pensavi che fossi… Jason?» Brian sorrise compiaciuto, schiaffeggiandola affettuosamente sul fondoschiena. «Tornato dalla tomba e in cerca di un po’ d’azione?»
«Tu e quella stronzata di Jason Voorhees.» Dina alzò gli occhi al cielo con fare drammatico, mentre si raddrizzava. «Non credi davvero a quelle storie da falò, vero?»
«Certo che sì», rispose Brian. «Vedi, nel lontano 1957 questo bizzarro ragazzino deforme è annegato a Crystal Lake perché quelle puttanelle delle sue tutrici erano troppo impegnate a fare la bestia con due schiene per tenerlo d’occhio.»
Dina alzò di nuovo gli occhi al cielo e cercò di fingere di non ascoltare veramente, ma non poté fare a meno di essere morbosamente affascinata dalla macabra storia.
«Un anno dopo», continuò Brian con compiacimento, «quelle stesse tutrici sono state aggredite da uno sconosciuto. Solo nel ’79, quando un idiota ottimista ha cercato di riaprire Camp Crystal Lake, hanno finalmente capito cosa stesse realmente accadendo. Ma non prima che un’intera nuova generazione di troie, e relativi fidanzati arrapati, sono stati massacrati, ovviamente.»
«Quindi stai dicendo che è stato il ragazzo strano, questo Jason Voorhees, a ucciderli?» disse Dina.
«No», rispose Brian, sorridendo compiaciuto. «Non subito, almeno.» Dina alzò un sopracciglio, ma non disse nulla. «Era la sua mamma psicopatica, Pamela, che voleva vendicarsi per la morte prematura di suo figlio», spiegò. «È lei che ha ucciso i primi adolescenti sfortunati. Questo è stato prima che una piccola bomba di nome Alice le tagliasse la testa e Junior rilevasse la vendetta di famiglia.»
«Com’è possibile?» disse Dina. «Pensavo avessi detto che era annegato.»
«No.» Brian adorava raccontare la storia dei Voorhees. «In qualche modo, contro ogni previsione, Jason è sopravvissuto ed è cresciuto fino alla maturità, aggirandosi furtivo intorno al lago, nutrendosi di tutto ciò che poteva catturare e uccidere, aspettando che un’altra banda di adolescenti promiscui si facesse viva. Poi è tutto caos e mutilazione fino a quando, dopo diversi anni, il nostro ragazzo con la maschera da hockey di seconda mano finalmente viene fatto fuori… da un ragazzo di dodici anni.»
«Fantastico», Dina sorrise. «Se un dodicenne poteva ucciderlo, immagino che noi non abbiamo nulla di cui preoccuparci.»
«Sì, be’, è stato prima che Jason tornasse dall’oltretomba, rianimato da un fulmine.»
Brian agganciò dita spettrali intorno al viso, proiettando ombre mostruose nel raggio della torcia.
«Sii serio», disse Dina. «E chi era, il mostro di Frankenstein? Mi stai prendendo in giro.»
«Giuro che è tutto vero», disse Brian, con gli occhi spalancati e seri. «Immagino che non puoi tenere sotto terra un uomo cattivo.»
«E dovrei credere che Jason continui a tornare, ancora e ancora?»
«Nessuno sa davvero cosa lo spinga a tornare», disse Brian. «È una specie di energia demoniaca? L’odio è così potente che nemmeno la morte può fermarlo? È rimasto qualcosa del ragazzo giovane e spaventato che una volta era all’interno di quella carcassa putrescente e omicida, o tutti gli anni di follia e omicidi l’ha trasformato in qualche… inarrestabile forza del male?»
Dina scosse la testa, sorridendo leggermente. «L’inarrestabile forza del male, eh?» disse. «Continua a blaterare e dovrò inventarti qualcos’altro da farti fare con la bocca.»
«Prometti?» Brian sorrise, facendole scivolare un braccio intorno alla vita mentre camminavano.
«Aspetta.» Dina indicò tra gli alberi. «Eccolo.»
«Crystal Lake», disse Brian.
Gli alberi si diradarono, rivelando uno scintillante specchio nero di acqua lucente, illuminata dalla Luna.
«È bellissimo», disse piano Dina, sorpresa di come la splendida vista facesse breccia nel suo cinismo urbano.
«Tu sei bellissima», rispose Brian, facendo scivolare le braccia intorno alla vita di lei.
«È difficile credere a tutte quelle storie cruente», disse Dina. «Tutori del campo massacrati, studentesse smembrate e tutto il resto. Questo posto sembra così… non lo so. Così pacifico.»
«Ora chi è che ha bisogno di qualcosa da fare con la bocca?»
Dina sorrise. «Baciami.»
Non aveva bisogno di chiederlo due volte.
Nel calore di quell’abbraccio, con la sensazione delle forti mani di Brian che scivolavano sui suoi seni, stuzzicandole delicatamente i capezzoli sensibili, tutte quelle terribili storie sembravano svanire. Sapeva che sarebbe stato bello con lui, poteva dirlo dal modo in cui le sue dita lente e sicure si muovevano sulla sua pelle affamata. Era un eccellente baciatore. Poteva sentirsi cedere alla gravità del desiderio, ma sapeva che c’erano altre cose che dovevano essere affrontate, prima, quindi si costrinse a tirarsi indietro e allontanarsi da Brian.
«Va bene, tigre», disse Dina. «Penso che tu abbia bisogno di raffreddare i bollori.»
Si allontanò da lui, indietreggiando lungo il molo. «Che ne dici di un bel tuffo fresco?» chiese, tirandosi la canottiera sopra la testa, esponendo il suo ventre magro e piatto e il petto senza reggiseno. I suoi capezzoli pallidi risaltavano rigidi nell’aria fresca della notte e lei lanciò un sorriso di sfida.
«Se stai cercando di raffreddarmi», disse Brian, «stai fallendo miseramente.»
«Dài», disse lei, sfilandosi i pantaloncini lungo le cosce sode e calciandoli via. «Di cosa hai paura? Di Jason?»
Un’espressione accigliata passò sul volto di Brian mentre faceva un passo verso il bordo del molo. «Andiamo, Dina», disse, la voce tesa per l’ansia repressa. «Non so se sia una buona idea.»
«Fifone», disse lei, voltandogli le spalle e alzando le mani sopra la testa.
Era consapevole degli occhi di lui sul suo corpo mentre si alzava, nuda in bilico al chiaro di Luna. Si allenava quotidianamente ed era orgogliosa delle proprie curve toniche. Amava mettersi in mostra, amava sentire gli occhi degli uomini addosso. A lavoro era l’unica donna e fuori non aveva quasi amiche. Quelle erano le situazioni che preferiva. La sua carne esposta rabbrividì in pelle d’oca mentre si allungava fino alle dita dei piedi e si tuffava nell’acqua calma e scura.
Nuotare nella fresca oscurità del lago era quasi come fluttuare senza peso nello spazio: deprivazione sensoriale totale. A terra, era stato facile ignorare le storie sanguinose e assurde raccontate da Brian. Nell’oscurità ininterrotta dell’acqua circostante, Dina scoprì che la sua mente elaborava quelle storie, creando immagini spaventose del predatore vestito con la maschera da hockey che si agitava nel limo come fosse inchiostro, attratto come uno squalo dal profumo di lei, caldo e vivo. Tornò in superficie, rabbrividendo. All’inizio era girata, voltata al molo. Tutt’intorno al lago c’erano solo boschi silenziosi, minacciosi e ininterrotti, che non rivelavano nulla. Si voltò e trovò il molo deserto.
«Brian?» chiamò.
La voce della ragazza echeggiò attraverso l’acqua, seguita dal tono ansioso della seconda frase: «Brian, smettila di scherzare!» Si scostò i capelli biondi bagnati dal viso e piegò la testa all’indietro per lisciarseli. L’acqua del lago le gocciolò in bocca e lei sputò, immaginando di poter percepire un sapore malsano e marcio sotto il fresco sapore metallico. «Non è divertente.» Niente. Solo beffardo silenzio. «Se pensi che ora potrai fare qualcosa con me, tu…»
Qualcosa le toccò la gamba. La frase le si strozzò in gola in un sussulto che le tolse il fiato. Distolse il corpo da quel tocco.
Era stato un pesce? Un ciuffo di erbacce acquatiche? O dita fredde e morte?
Lo sentì di nuovo, questa volta dolorosamente in alto, all’interno della sua coscia nuda. Non emise alcun suono, si morse il labbro e iniziò a nuotare verso la riva con bracciate forti e veloci. Era a meno di metà strada quando qualunque cosa fosse sotto di lei ne ebbe abbastanza di stuzzicare, decidendo di stringendosi come un ceppo di metallo attorno alla caviglia sottile della ragazza.
Dina grugnì di sorpresa e paura, scalciando con la gamba libera più forte che poteva. Ebbe appena il tempo di inspirare un respiro disperato prima di essere tirata giù violentemente, con l’acqua che le si chiudeva sopra la testa.
Nella mancanza d’aria sotto la superficie del lago il terrore e il panico mandarono completamente in cortocircuito i pensieri di Dina. Agendo di puro istinto, scalciò di nuovo e questa volta sentì il tallone del suo piede entrare in contatto con qualcosa di duro e liscio. Una scossa di dolore le attraversò la gamba, ma la presa sull’altra caviglia si allentò e lei si liberò, schizzando in superficie con un ululato che era per metà terrore e per metà furia. I muscoli carichi di adrenalina la facevano muovere nell’acqua come un siluro, e in pochi secondi si stava issando sul molo.
I suoi vestiti erano spariti.
Sprecò alcuni momenti preziosi in un’inutile ricerca, ma era chiaro che i suoi vestiti erano stati deliberatamente portati via. Avrebbe dovuto correre, nuda e scalza, o cadere vittima di…
Sentì un leggero sciabordio, grosse goccioline d’acqua che ricadevano nel lago. Quando si voltò, ciò che vide sorgere dall’acqua scura si conficcò per sempre nella sua coscienza.
C’erano tutti i dettagli della storia di Brian: la maschera da hockey vissuta e rovinata, unta di alghe morenti; i segni della decomposizione; la camicia da lavoro con pantaloni strappati e sformati, macchiati di sangue secco; il luccichio opaco del machete segnato da mille graffi. Ma nulla avrebbe potuto prepararla alla mole delle spalle massicce, delle mani enormi e della testa deforme, come una zucca in decomposizione lasciata sulla veranda molto tempo dopo Halloween, montata sopra un fisico da giocatore di football. E l’occhio… l’unico occhio visibile, che ardeva di una furia così fredda da togliere il fiato a Dina. Non si era mai considerata una ragazza indifesa. Aveva avuto la sua bella dose di incontri personali violenti ed era addestrata in cento modi per disarmare un aggressore di qualsiasi dimensione. Ma questo, questo era così completamente sbagliato, così al di là del regno del possibile che lei rimase lì, ipnotizzata mentre lui si issava sul molo.
Jason, pensò. Era davvero Jason.
Sapeva cosa doveva fare, ma il suo corpo sembrava pigro e insensibile, riluttante a obbedire. Lui era arrivato a meno di due metri quando lei fu finalmente in grado di fare l’unica cosa che potesse fare.
Iniziò a correre.
Correndo attraverso i boschi oscuri, con i suoi piedi nudi che si ferivano e la sua carne sferzata dai rami, Dina sperava di stare andando nella direzione giusta. Era abbastanza sicura di aver riconosciuto l’albero alla sua sinistra, diviso in due come spesse gambe a testa in giù, ma poteva sentire Jason che procedeva violentemente nel bosco dietro di lei come un Grizzly infuriato, colmando la distanza tra loro con l’implacabile inevitabilità di un incubo, facendo crescere il senso di panico. Ricacciò la paura dentro di sé e costrinse le gambe a raddoppiare la velocità.
Ci siamo quasi, pensò. Quasi
Davanti a lei c’erano due enormi querce perfette, una accanto all’altra come le colonne di un tempio. Non era mai stata così felice di vedere qualcosa, in vita sua. Si diresse verso gli alberi come un giocatore di football che cerca il touchdown vincente, i denti serrati e il fiato che le bruciava nel petto ansimante.
«Ora!» gridò lei mentre passava tra gli alberi.
Jason arrivò pochi secondi dopo e una rete d’acciaio appesantita cadde su di lui.
Luci intense inondarono la scena mentre uomini in armatura della SWAT si riversarono dai boschi circostanti come formiche arrabbiate, ognuno disegnando un palino rosso sulla maschera da hockey bianco sporco sotto la rete d’acciaio. Jason si agitò con furia silenziosa mentre un paio di dardi tranquillanti delle dimensioni di un dito si conficcavano nella carne fredda del suo collo.
Dina trovò rapidamente la sua scorta di vestiti e attrezzature supplementari. Ebbe appena il tempo di allacciare il velcro del suo giubbotto di kevlar quando udì un grido alto e femminile, seguito da un’assordante raffica di colpi di arma da fuoco.
Era ancora scalza quando si voltò per vedere uno della sua squadra cadere in un vistoso getto di spruzzi arteriosi. Jason aveva squarciato la maglia d’acciaio come se fosse biancheria, liberando facilmente la mano del machete e tagliando la gola dell’uomo fino all’osso.
«Kenworth!» chiamò Dina il caposquadra. «Schiuma!»
Reid Kenworth non era un uomo che si agitasse quando la merda colpiva il ventilatore. Annuì bruscamente e lanciò a Dina un dispositivo che sembrava un aspirapolvere dell’èra spaziale.
Nel frattempo, altri due uomini stavano trascinando il loro amico morente fuori dalla mischia mentre Brian e molti altri svuotavano i loro caricatori nel corpo indifferente di Jason. Quest’ultimo si scrollò di dosso i proiettili come se fossero zanzare, e si liberò facilmente dalla rete, tagliando la faccia dell’uomo alla sua destra, quindi affondando il suo machete in profondità nella coscia muscolosa di Brian. Questi si afferrò la gamba sanguinante e cadde goffamente all’indietro, direttamente nella linea di tiro del suo compagno di squadra. I proiettili si appiattirono contro il suo Kevlar e lui grugnì, crollando a terra semicosciente.
«Cessate il fuoco!» gridò Kenworth.
Il panico regnava sulla scena caotica e fortemente illuminata mentre Jason avanzava sui tiratori terrorizzati, calmo e imperterrito.
«Ho detto di cessare il dannato fuoco!» gridò Kenworth. «Non vogliamo danneggiare la merce.»
«Torna indietro», urlò Dina, afferrando il grilletto che sporgeva dal dispositivo simile a uno zaino. «Torna indietro, cazzo!»
Lei si avvicinò senza paura alla traiettoria di Jason e premette il grilletto.
Jason indietreggiò barcollando mentre veniva colpito da una schiuma grigia densa e appiccicosa. Mentre la sporcizia lo avvolgeva, il suo movimento rallentò, con il suo corpo massiccio immobilizzato dai fili collosi, finché non cadde in avanti come una sequoia tagliata con la motosega.
Dina si sforzò di rallentare il respiro mentre tutti guardavano in silenzio, aspettando di vedere cosa sarebbe successo dopo. Jason lottò contro la schiuma indurita per altri trenta secondi e alla fine rimase completamente immobile.
«È tranquillo?» chiese Dina.
Kenworth fece un passo avanti e colpì il lato della testa malformata di Jason. Nessuna reazione. Kenworth annuì.
«Va bene», disse Kenworth. «Sanders e Polk, portate Thompson e Jacowitz dal medico il prima possibile. Beck, Levin e deVeer, aiutatemi a mettere al sicuro l’obiettivo e preparatelo a muoversi.» Fece una pausa e mise una grossa mano sulla spalla tremante di Dina. «Ottimo lavoro, Ridgeway.»
Dina osservò Polk che si strappava un pezzo della maglietta e lo avvolgeva intorno alla coscia sanguinante di Brian. La faccia di Brian era bianca come la ricotta e lucida di sudore. I suoi denti erano serrati dall’insopportabile agonia. I suoi occhi spalancati dal dolore e dalla paura incontrarono quelli di Dina. La ragazza distolse lo sguardo.
«Grazie, signore», disse piano.


Il primo incontro con Jason

Facendosi strada il più silenziosamente possibile attraverso il fitto sottobosco, e cercando di ignorare il dolore e la stanchezza che gli piegavano il corpo, Butch improvvisamente si bloccò. Rimase in ascolto. C’era uno strano suono, un lieve raschiare ritmico. Procedendo con cautela, avanzò verso un debole alone di luce che indicava la presenza di un’altra telecamera fissa. Sbirciando attraverso i rami individuò la ragazza muscolosa dagli occhi verdi.
Dava le spalle a dei folti alberi, con gli occhi spalancati nella luce fioca mentre strofinava la punta di un grosso ramo verde avanti e indietro su un ruvido pezzo di pietra, affilandone con passione la punta.
Butch la guardò, il cuore stretto nel petto. Sarebbe stato pateticamente facile toglierle quel bastone e spezzarle il collo, ma anche solo il pensiero gli dava una nausea così forte che temeva di tradire la propria presenza. Accettare di partecipare a questo gioco era stata una pessima idea. Butch non sapeva cosa fosse realmente accaduto quella notte in quella stanza d’albergo, ma in cuor suo sapeva di non essere un assassino, nonostante quel ragazzo morto nella radura. Voleva più di ogni altra cosa vincere, avere quegli stravaganti avvocati che lo aiutassero a dimostrare ad Ace che era innocente, ma Butch non aveva la forza di uccidere per farlo accadere. Sarebbe stato meglio metterlo a dormire come un cane malato.
Stava per sgattaiolare via quando un improvviso tonfo sordo lo scosse dalle sue fantasticherie. La ragazza emise un rantolo soffocato e si gettò a terra. C’era un enorme machete conficcato nel tronco dell’albero pochi centimetri sopra il punto in cui la testa di lei era stata solo pochi istanti prima. Un’enorme mano grigiastra si protese dalla fitta giungla per reclamare l’arma. Una linfa chiara e ambrata colava lungo la lama massiccia mentre un uomo enorme con una maschera da hockey usciva dal cespuglio che lo nascondeva.
Lui torreggiava su di lei, massiccio, silenzioso e impassibile. Quella maschera da hockey priva di emozioni, schizzata e imbrattata di sangue rappreso misto a sangue fresco, sembrava quasi fluttuare, spettrale e disincarnata nell’oscurità argentea. La ragazza lanciò un urlo furioso e conficcò il bastone appuntito nella gamba dell’uomo, a destra dell’inguine. Butch esultò silenziosamente mentre si girava e si tirava su e il bastone si spezzava dalla gamba. Un liquido denso e fetido gocciolava dall’estremità scheggiata del bastone e l’uomo barcollò leggermente, lottando per strappare il machete dall’albero.
Quando il machete fu finalmente libero, l’uomo mascherato colpì la ragazza e lei si lanciò da parte, atterrando duramente. L’uomo avanzò verso di lei che strisciava goffamente all’indietro attraverso l’umido pavimento di foglie della giungla. L’estremità scheggiata del bastone che sporgeva dall’inguine dell’uomo urtò contro un moncherino basso e marcio, costringendolo a fermarsi e guardare in basso quello che, su qualsiasi persona normale, avrebbe dovuto essere una ferita atroce, se non mortale. Con meno reazione di un uomo che si tolga i pelucchi dalla giacca, l’uomo mascherato afferrò l’estremità del bastoncino e lo tirò fuori in un fiotto nero e umido di un fluido malsano, troppo denso per essere sangue normale. Che tipo di creatura era questo mostro mascherato? Chiaramente questo era l’“ospite speciale” di cui aveva parlato l’introduzione del video. Ma come diavolo avrebbero dovuto combattere qualcosa che non poteva essere ucciso o addirittura ferito?
La ragazza doveva essersi chiesta la stessa cosa mentre sfruttava quella breve distrazione per alzarsi in piedi e afferrare una pietra frastagliata grande quasi il doppio di quella che il ragazzo vietnamita aveva usato per colpire Butch in faccia. Butch era stupito che potesse tenerla in una mano. Diede un’occhiata al mostro che avanzava con la maschera da hockey e poi si voltò per scappare.
Quel tizio enorme era incredibilmente veloce. Butch fece un respiro ansioso quando l’uomo mascherato afferrò la ragazza per il retro della maglietta e la tirò verso di sé. Butch lasciò uscire il fiato in un piccolo applauso soffocato mentre lei si divincolò e fece cadere il pesante masso in faccia all’uomo mascherato. Una grossa crepa si aprì nella maschera da hockey bianca e sporca, dall’occhio fino al bordo superiore sinistro, ma il tizio sembrò rimanere impassibile per il colpo. La colpì con il machete ma lei era troppo vicina: la prese di striscio alla tempia con il suo grosso polso, invece che con il bordo della lama. Era un colpo comunque abbastanza forte da farla diventare stupida. La ragazza si accartocciò e cadde all’indietro.
L’uomo mascherato si voltò e si fermò sopra di lei, il machete alzato per un colpo mortale. Il cuore di Butch batteva all’impazzata mentre la lama scendeva fischiando nel terreno accanto alla testa della ragazza. Che riuscì all’ultimo secondo a rotolare via. Con grande stupore di Butch, lei afferrò il braccio del tizio che brandiva il machete, aggrappandosi ad esso con tutte le sue forze mentre lui la sollevava da terra. Non poteva pesare meno di 75 chili, ma lui la sollevò senza sforzo con un braccio, come fa un papà con il suo bambino. Il mostro si allungò e strinse la gola della ragazza finché lei non allentò la presa sul suo braccio. Lei grattava e artigliava il braccio che la teneva per la gola, ma Butch poteva vedere che era stanca e il mostro stava già sollevando quell’enorme machete per tagliarla a metà.
Butch sapeva che se quel maniaco mascherato avesse ucciso la ragazza dagli occhi verdi, lo avrebbe reso un concorrente più vicino alla vittoria, ma non poteva rimanere a guardare mentre lei veniva assassinata.
L’adrenalina spinse Butch all’azione improvvisa. Corse verso l’uomo mascherato a tutta velocità e gli diede un potente calcio alle ginocchia. Il mostro lasciò andare la ragazza che barcollò indietro, cadendo direttamente sopra Butch. La testa di lei lo colpì in pieno sul naso rotto, accecandolo con una scossa di luminosa agonia. Lui imprecò e lei rotolò via. Poi la sentì urlare di sorpresa nello stesso esatto momento in cui l’uomo mascherato inciampava e cadeva, precipitando all’indietro e giù attraverso un groviglio di rami e in un burrone nascosto.
Butch si alzò su un ginocchio e vide la ragazza sospesa sull’orlo del burrone, aggrappata ad alcuni rampicanti. «Merda», disse Butch, buttandosi sulla pancia e allungandosi verso di lei. «Prendi la mia mano.»
La ragazza lo guardò, i suoi occhi verdi spalancati e selvaggi. Potevano sentire l’uomo mascherato che si dibatteva e colpiva il fogliame in fondo al burrone mentre si arrampicava per raggiungerla.
«Dài!» disse Butch.
La ragazza lasciò andare i rampicanti con una mano e gli afferrò la mano spessa e callosa, dalla presa solida come il ferro. Lui tirò lentamente e lei riuscì a far salire prima una gamba, poi l’altra oltre l’orlo del burrone, poi lui l’aiutò ad alzarsi in piedi.
«Corri», disse.
Lei fece come le aveva detto. Corsero insieme, mettendo quanta più distanza possibile tra loro e il mostro mascherato. Butch si sforzò di concentrarsi sulla giungla oscura intorno a loro, tenendo d’occhio qualsiasi pericolo, ma era difficile non essere distratto dai movimenti delle potenti gambe e del sedere della ragazza mentre correva davanti a lui.
Alla fine si fermò, senza fiato, e lui si fermò accanto a lei, sentendo ogni livido, ogni colpo che gli risuonava nelle ossa. Rimase in piedi con le braccia strette sul petto, guardandolo attraverso le ciocche di capelli scuri che le sfuggivano dalle sue ridicole treccine. Prima di rendersene conto, allungò una mano e le toccò la spalla.
«Stai bene?» chiese.
«Vaffanculo», disse la ragazza, indietreggiando al suo tocco. «Non ho bisogno del tuo aiuto.»
Lei lo fissò, con il suo mento forte e determinato. I suoi occhi erano fiammeggianti e lui sentì un’ondata di desiderio completamente inutile e distraente che lo travolgeva di nuovo. Aveva lottato per spingerlo mentalmente verso il basso e tenerlo sopito prima che lo mettesse davvero nei guai.
«Mi dispiace, io…»
«Ho detto vaffanculo!» Lei lo spinse via e quando lui non si mosse, lo colpì alla spalla con un sinistro sorprendentemente duro.
«Ehi», disse lui portandosi la mano alla spalla e aggrottando la fronte.
«Non ho bisogno di te», disse lei, preparando un altro colpo duro che lo avrebbe lasciato a bocca aperta se non le avesse afferrato il polso. Lo tenne stretto, lasciandola scalciare e agitarsi. Cristo, era forte. Tutto il suo corpo era martoriato e dolorante per il pestaggio appena subìto, un caldo, pulsante battito di dolore nel naso rotto, ma tenne duro finché lei non si sentì stanca, esausta.
«Va bene, va bene, non hai bisogno di me», concordò. «Quindi non picchiarmi più, va bene? Penso di essere stato colpito abbastanza per oggi.»


L.

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Informazioni su Lucius Etruscus

Saggista, blogger, scrittore e lettore: cos'altro volete sapere di più? Mi trovate nei principali social forum (tranne facebook) e, se non vi basta, scrivetemi a lucius.etruscus@gmail.com
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5 risposte a Friday the 13th – The Jason Strain (2006)

  1. Willy l'Orbo ha detto:

    Ci voleva proprio il doppio post, tra l’altro di questo tenore, per darmi soddisfazioni che con il precedente sono più avare, per ovvi motivi, ahahah! 🙂

    Piace a 1 persona

  2. Giuseppe ha detto:

    Ogni nuova traduzione si “traduce” in un nuovo rimpianto per tutte quelle buone idee che il cinema NON ha avuto (e che tanto bene avrebbero fatto alla saga) 😉

    Piace a 1 persona

    • Lucius Etruscus ha detto:

      Il problema dei romanzi è che hanno buone idee e sanno come raccontarle, quando al cinema sono assolutamente vietate le buone idee e c’è solo un modo per raccontarle: quello sbagliato. Il vero posto di Jason è solo nei romanzi 😛

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