The Great War (2019) C’erano soldati neri ad Argonne?


Vi basta dare un’occhiata alla locandina per capire che appena mi è spuntato fuori il bannerino di questo film su Prime Video mi si è smossa tutta la Z che porto nel cuore.

La battaglia dell’Argonne ricreata nella Pineta di Ostia, grande ritorno in questo blog, con il colonnello Billy Zane e il generale Ron Perlman: mi dite come può resistere un povero zinefilo a richiami così potenti?

Manco Billy ce la fa a restar serio, in divisa

Sto parlando di The Great War, scritto e diretto da Steven Luke, di solito attore in film bellici ma ogni tanto anche autore. Presentato in patria americana nel dicembre 2019, purtroppo non ho trovato traccia di alcuna distribuzione italiana al di fuori questa apparizione su Prime Video: spero di cuore conosca prima o poi un’edizione DVD perché ho già lo spazio nella videoteca casalinga in cui metterlo.

Steven Luke si ricollega al tipo di furbate ben note agli autori di serie Z: con quattro amici si va in un boschetto (in questo caso, Big Lake nel Minnesota, mi dice l’IMDb), si finge che sia uno scenario della Francia settentrionale e si gioca alla guerra. Risparmio massimo sulle ambientazioni esterne, qualche divisa, qualche fuciletto e via così, il film è fatto e finito. Ma qui succede qualcos’altro, che ha scatenato i miei sensi di “indagatore”.

Il grande ritorno della Pineta di Ostia!

La particolarità di questo film è che si svolge a pochi giorni da quel fatidico 11 novembre 1918 in cui viene decretata la fine della Prima guerra mondiale, e anzi in realtà la guerra è già bella che finita: proprio per questo la situazione è molto più pericolosa. Perché tutti i territori che alle ore 11 dell’11 novembre (l’undicesima ora dell’undicesimo giorno dell’undicesimo mese) saranno occupati da Alleati saranno chiamati “Francia”, il resto rimarrà ai tedeschi. E questi ultimi quindi faranno di tutto, come in un gioco alla “Squid Game”, per farsi trovare su più territorio possibile quando verrà gridato “Stella!”.

In questo scenario si inserisce la trama del film, in cui un battaglione di Buffalo Soldier si trova in una zona avanzata che sicuramente sarà rioccupata dai tedeschi, quindi bisogna andare a salvare, portar via o difendere quei soldati neri… Aspetta un momento: davvero c’erano soldati neri nella Prima guerra mondiale?

La scena che mi ha mandato fuori di testa!

Guardate questa schermata in alto: passi per la Pineta di Ostia, ma un soldato nero americano e un fucile a pompa (in alto a destra) durante la Grande Guerra mi hanno fatto svalvolare. Siamo sicuri che non sia il solito campionato di falso storico tipico degli americani?

Mi sembra il momento giusto per rispolverare la mia vecchia rubrica storica.


La Storia e la Finzione

Per capirci qualcosa mi affido a Brian Lane Herder e al suo recente saggio The Meuse-Argonne Offensive (“Campaign” n. 357, Osprey 2020), ovviamente inedito in Italia, il quale parte dal 1916 a spiegarmi la situazione creatasi nel film.

In quel 1916 il tedesco Richard Fuss fa uno studio, fa i suoi bei calcoli, e presenta un documento in cui spiega che se la Kaiserliche Marine (la marina imperiale tedesca) riuscirà ad affondare 600 mila tonnellate di navi alleate al mese, tempo sei mesi e la Gran Bretagna sarà costretta a firmare la pace. Perché, pare strano dirlo, la pace è l’unico obiettivo a cui i tedeschi mirano a due anni dall’inizio di quella che noi oggi chiamiamo Prima guerra mondiale.

Letto lo studio di Fuss, il 22 dicembre 1916 l’ammiraglio von Holtzendorff scrive una nota in cui chiede caldamente che riparta il programma sottomarino tedesco, così da iniziare ad affondare navi e rendere più vicina la pace. Il problema è che se i sottomarini tedeschi cominciano ad affondare navi alleate, sicuramente gli Stati Uniti entreranno in guerra, ma tranquilli: la pace sarà firmata molto prima che i «disorganizzati e indisciplinati» americani avranno il tempo anche solo di partire da casa. «Le do la mia parola di ufficiale», conclude l’ammiraglio Holtzendorff rivolto niente meno che al Kaiser Guglielmo II, «non un solo americano sbarcherà sul continente». Oh, segnatevi il nome di questo ammiraglio, che è uno che ci azzecca…

Il Kaiser si lascia convincere dai suoi ufficiali, forti di informazioni carenti (e sbagliate) sullo stato della terra americana, e il 1917 si apre con i sottomarini tedeschi che cominciano ad affondare ogni nave alleata che incontrano. Le cifre rimangono bassine i primi mesi (a febbraio solo 497.095 tonnellate, a marzo 553.189 e finalmente ad aprile 867.834), intanto viene mandato un telegramma al Governo messicano: se dichiarano guerra agli Stati Uniti, distraendoli così dal teatro europeo, il Kaiser gli offre in regalo gli Stati del Texas, Arizona e New Mexico. Così, un simpatico omaggio.

Il 6 aprile 1917 gli Stati Uniti dichiarano guerra al Reich e a giugno sono già in Francia con 14 mila soldati, alla faccia delle previsioni tedesche. A dicembre però la Russia si ritira dalla guerra per via della Rivoluzione di ottobre (che però era ottobre solo per il loro calendario) e così i tedeschi possono ritirare le truppe dal fronte orientale e portarle tutte sul fronte occidentale, dove Erich Maria Remarque potrà scrivere il suo capolavoro.

Nel marzo del 2018 i tedeschi sul fronte occidentale sovrastano numericamente le truppe alleate e così il generale Ludendorff decide di lanciare un’offensiva di primavera prima che arrivino tutti i soldati americani di rinforzo. L’iniziativa va decisamente male, anzi malissimo: quasi un milione di tedeschi muore sul campo, circa un terzo dell’intero esercito, e intanto continuano ad arrivare soldati americani d’oltre oceano.

Ma possiamo vincere la guerra con Billy Zane???

A causa di mancanza di uniformità e collaborazione, alla fine gli alleati si decidono a nominare un solo capo delle armate alleate, il generalissimo Ferdinand Foch. A luglio Foch raduna i rappresentanti dei vari eserciti – il generale Pétain (Francia), il feldmaresciallo Haig (Gran Bretagna) e il maggior generale Pershing (USA), interpretato da Ron Perlman nel film – nel quartier generale di Château de Bombon (che come nome sembra più un localino notturno!): invece di giocare sottile, gli alleati devono usare la loro superiorità numerica per attaccare lungo tutto l’intero fronte occidentale, in un numero di azioni contemporanee che i tedeschi non potranno contrastare.

Ron Perlman nel ruolo del generale Pershing, che qui però fa tutto da solo

Curioso e intrigato procedo balzellon balzelloni alla parte in cui verrà raccontata l’eroica resistenza dei soldati neri, che si ritrovano da soli a difendere una collina ambita dai tedeschi, eventualmente aiutati da alcuni soldati americani non razzisti che decidono di aiutare i propri commilitoni al di là del colore della pelle… e niente, non c’è traccia di questo evento. Il saggio conferma la presenza di una «92° “Buffalo” Division (Colored)» agli ordini del maggior generale Charles Clarendon Ballou asterisco…. Oh, e che vuol dire questo asterisco? Più sotto specifica che questa divisione era una riserva: sicuri sia andata in missione, come viene mostrato nel film?

«There was a Buffalo SoldierIn the heart of AmericaStolen from Africa, brought to AmericaFighting on arrival, fighting for survival»

Mentre canticchio Bob Marley mi rivolgo a Ron Field che, nel suo saggio Buffalo Soldiers. 1892-1918 (“Elite” n. 134, Osprey 2005), mi spiega che durante il periodo della Prima guerra mondiale c’erano ben 400 mila soldati di colore nell’esercito americano, ma solamente la metà è stata inviata in Europa e, ancora, solo circa 42 mila di questi soldati sono stati effettivamente impegnati in combattimenti.

Negli Stati Uniti c’erano quattro reggimenti composti interamente di soldati di colore, ma il Dipartimento della Guerra ha annunciato che non sarebbero stati inviati in Francia, perché temeva potessero nascere dei problemi con la popolazione locale. La cosa non viene spiegata, Field si limita a citare alcune non meglio specificate race riots, “rivolte razziali”, in cui il 24° Fanteria sarebbe stato coinvolto in Texas. Che vuol dire? Forse che il Governo americano pensava che la Francia del 1918, nel cui impero coloniale c’erano anche Stati africani, reagisse male a vedere soldati neri armati? Non so, più avanti lo stesso autore ci spiega che l’esercito francese aveva soldati provenienti dalle proprie colonie di Algeria, Marocco e Senegal, quindi quale sarebbe stato il problema con i neri americani? Mistero.

Quali che ne siano i motivi, l’Esercito americano non mandava i propri soldati neri se non in zone “sicure”, dove cioè il colore della loro pelle non generasse attriti. Visto però, aggiungo io, che fino a quel momento gli unici problemi si erano avuti in Texas, che sono Stati Uniti, direi che il paradosso era bello grosso. Comunque poi comunque almeno duecentomila soldati neri vengono inviati in Francia per combattere contro i tedeschi, quindi tutte queste remore non sembrano importanti.

Salvate il soldato nero!

«Il 10 marzo 1918 il 369° Fanteria venne spedito alle linee nemiche, e dopo solo tre settimane di addestramento nell’uso di armi francesi a Givry-en-Argonne i soldati neri si ritrovarono a combattere in una regione a ovest della foresta dell’Argonne, vicino al fiume Aisne. Per quasi un mese difesero un settore di tre miglia contro diversi attacchi tedeschi: malgrado rappresentassero meno dell’1% delle truppe americane su suolo francese, quelli del 369° mantennero il 20% del fronte difeso dalle truppe statunitensi.»

Ricevuta la Croix de Guerre e vari riconoscimenti personali, il 369° Fanteria venne subito ribattezzato “Harlem Hell Fighters”, anche se a naso non mi pare che la narrativa americana bellica si affatichi troppo a citare questi soldati di colore.

Di solito la narrativa di guerra (prima o seconda) è particolarmente bianca

Ron Field illustra tutti i battaglioni con soldati di colore impegnati nella Francia del 1918, ma della vicenda raccontata da questo film non c’è traccia: al massimo sappiamo che il 370°, detto “Black Devils”, ha combattuto l’ultima battaglia della guerra, mezz’ora prima dell’armistizio dell’11 novembre, ma la descrizione non assomiglia alla trama filmica.

Temo che lo sceneggiatore e regista Steven Luke con il suo film abbia voluto ridare dignità a quei tanti soldati neri che si sono distinti nella Prima guerra mondiale, con tanto di medaglie a secchiate, e che poi sono stati bellamente dimenticati dalla narrativa di genere: infatti io stesso mai avrei pensato ce ne fossero in quel periodo. L’intento è lodevole ma probabilmente si è voluto esagerare con l’enfasi della vicenda, che non sembra attestata dalla storiografia coetanea, quella cioè che avrebbe tutto l’interesse a mostrarsi “aperta di vedute” sulla questione razziale.


Accuratezza armigera

Anche dal punto di vista delle armi ero convinto che in questo film avrei trovato i soliti anacronismi, dovuti a incuria o a difficoltà nel trovare armi di scena, invece una foto tratta dal saggio 20th-century Arms and Armor (1996) dello storico Stephen Bull mi toglie ogni dubbio: a sorpresa, la minuscola produzione di The Great War è stata particolarmente attenta.

Mai avrei creduto che girassero fucili a pompa prima degli anni Cinquanta in cui sono esplosi, soprattutto in narrativa, invece scopro che era dal 1897 che la Winchester ne produceva, cioè la stessa casa del mitico fucile delle storie western.

Bull mi spiega che in previsione della campagna francese, l’Esercito americano si è interrogato su quali fucili fossero più utili da dare in dotazione ai soldati, e visto che principalmente sarebbe stata una guerra di trincea si è optato per armi a corto raggio, efficaci cioè più negli spazi stretti delle trincee che in campo aperto. Il fucile a pompa infatti non è certo un’arma precisa sulla lunga distanza ma è più che temibile sulla corta.

Avrei giurato fosse un falso storico, invece è una perla di precisione!

Oltre al Winchester modello 1897 a pompa “Trench Gun” fra la dotazione dei soldati americani troviamo anche lo Springfield modello 1903, in sostituzione del fucile norvegese Krag-Jorgensen che durante la precedente guerra ispano-americana si era rivelato non molto efficace. Lo Springfield, prodotto anche da case private, era preciso e veloce, ma c’era un grosso problema: era difficile procurarsene così tanti da poter rifornire tutte le truppe in partenza per la Francia. Così la dotazione è stata integrata – mi spiega sempre Bull – con un fucile molto simile, l’US Enfield modello 1917, originariamente un disegno britannico che poi era stato ripreso dagli americani.

Un Buffalo Soldier con un US Enfield 1917

Malgrado dunque sia un filmettino di basse pretese e dalle evidenti carenze produttive, lo stesso The Great War ci prova a fare i compiti e a mostrarsi attendibile, al contrario di tanti altri prodotti. È vero, probabilmente l’evento raccontato è di finzione, e mi azzardo a dire che in realtà erano pochini i soldati bianchi disposti a morire per i loro commilitoni neri, ma lo stesso è da lodare il fatto che abbia provato a raccontare una storia diversa dalla solita propaganda a cui Hollywood ci ha abituati da ormai un secolo.

Potevano poi mancare i tedeschi che imbracciano il mitico Mauser Gewehr 1898, caro alla narrativa di genere?

Cosa sarebbe la narrativa di genere senza un fucile Mauser?

Un’ultima parola va spesa per quel fucile a pompa che tanto stupore mi ha destato.

Intrigato da una notizia letta su Wikipedia, seguendo la fonte scopro un articolo del 1997 di W. Hays Parks, specializzato in legislazione militare, apparso su un vecchio sito specialistico. Parks cita proprio il generale Pershing e il fatto che i suoi uomini usassero fucili a pompa, come già nella precedente guerra ispano-americana, arma che «agì sul morale delle truppe tedesche».

Stando al racconto di Parks, il 19 settembre 1918 – quindi due mesi prima degli eventi raccontati dal film – il Governo tedesco presentò un’istanza diplomatica contro l’uso di questi fucili a pompa da parte dei soldati americani, affermando che questo tipo di arma era vietata dalla legge di guerra. Dopo attenta analisi, il Segretario di Stato Robert Lansing rigettò l’istanza (ma va’?): «è l’unica occasione nota in cui sia stata messa in dubbio la legalità dell’uso in combattimento del fucile», commenta Parks.

Anche qui il mio stupore è grande: ma davvero durante un conflitto uno dei due schieramenti può alzarsi e dire all’altro “Scusa, la smetti di usare quell’arma, che mi dà noia?” Quante cose ho imparato da un filmetto di serie Z.

L.

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28 risposte a The Great War (2019) C’erano soldati neri ad Argonne?

  1. Cassidy ha detto:

    Ron Ron e Billy campione della Z sono un magnete, poi come al solito fai più ricerche tu che gli autori del film 😉 Riconosco la stessa esaltazione del me bambino, la prima volta che vide la moderna Colt 45 automatica impugnata da Lee Marvin si, però nel Western “I professionisti” (1966), trattandosi di un fucile da trincea, forse lo avevo incontrato in qualche storia di guerra di Garth Ennis ma potrei confondermi, quindi preferisco verificare fumetti alla mano prima. Cheers!

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      Abituato a vedere quel fucile in storie moderne ero convinto non potesse trovarsi in una trincea del 1918, e di solito c’è poco da fidarsi dei film americani, ma per questo è bello fare ricerche, per sfatare miti e scoprire chicche chiccose 😛
      Appaiono per circa due minuti in totale, ma Ron e Billy illuminano tutto d’oro ^_^

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  2. Lorenzo ha detto:

    Il background storico è interessante. Chi lo sa, forse i soldati di colore statunitensi non furono inviati perché avrebbero potuto solidarizzare con i francesi provenienti dalle colonie, viste le radici comuni, e magari ribellarsi in quanto entrambi discriminati.
    Il film però non penso di vederlo 😛

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      Non so perché lo storico abbia gettato lì quella frase senza spiegarla, visto che teoricamente è il suo mestiere farlo 😛
      Soprattutto non so perché l’abbia detta visto che poi racconta di come 200 mila soldati neri siano stati inviati: ma non avevi detto che il Governo americano non voleva??? Boh.
      Il film mi sento di sconsigliartelo, è la classica roba Z girata in un boschetto, se non fosse stato per le ricerche sugli eventi e sulle armi non lo avrei neanche citato 😛

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      • Giuseppe ha detto:

        Visto che fa molta meno propaganda rispetto a film analoghi non c’era da aspettarsi un budget milionario (quello lo si riserva ai titoloni narranti gli eventi bellici USA nel modo “giusto” dal loro punto di vista, che in genere è quello sbagliato per tutti gli altri), ma almeno ci sono due cose ad arricchirlo:
        1) La presenza in contemporanea di Zane e Perlman
        2) La tua accuratissima ricerca storico/armaiola 😉

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      • Lucius Etruscus ha detto:

        Siamo arrivati al paradosso che per gustarci un onesto prodotto di narrativa bellica tocca rivolgersi alla serie Z, e andare tutti nella Pineta di Ostia ^_^

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  3. arwenlynch ha detto:

    Un vero film di serie zeta xD

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  4. Claudio Capriolo ha detto:

    Soldati neri sulle Argonne nel 1917-18 non mi sembra meno plausibile di un ufficiale nero nell’esercito di Luigi XIII — si vede nel Cyrano dell’anno scorso con Peter Dinklage: d’accordo, è un musical, però la scelta pare comunque insensata; deprecabili degenerazioni del principio, di per sé non completamente sballato, del politicamente corretto.
    A proposito di guerre mondiali sul fronte francese, mi viene in mente un buon film sull’altra grande guerra, girato nel 1969 da Pollack e intitolato Ardenne ’44: un inferno, con Burt Lancaster e Peter Falk. Non esattamente un film bellico in quanto insiste più sulle differenze culturali fra europei e americani che sulle scene di guerra, ma vale la pena 🙂

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      Proprio perché negli ultimi anni il delirio del politicamente corretto ha sfondato ogni parete dell’anacronismo, ho subito pensato che questo “The Great War” avesse infilato soldati neri solo per farsi bello con i polemici di twitter, invece mi è piaciuto raccontare come paradossalmente sia più storicamente accurato questo film di serie Z che grandi produzioni modaiole e timorose dei social.
      Potrà essere inventata la vicenda, ma come mi spiegano i libri citati c’erano soldati neri e pure tanti, malgrado in seguito la narrativa bellica sia parecchio bianca.

      Di film di guerra ne esistono a milioni e qualcuno è addirittura bello 😛
      Per questo post di oggi mi ero visto pure “I fucilieri delle Argonne”, unico film che io sappia a citare quella località, ma è talmente datato che vederlo è stato insopportabile: ti dico solo che i soldati americani portavano l’elmetto sulle ventitré, talmente erano “gagliardi”. Visto però che alla fin fine non parlava della foresta di Argonne non l’ho citato.
      Ti ringrazio per la segnalazione e mi rinfrescherò la memoria con il titolo che citi, che sicuramente ho visto da ragazzo – mio padre non si faceva sfuggire i film di guerra! – ma sul momento non ricordo.

      Scopro invece di aver visto troppi pochi film sulla Prima guerra mondiale, sarà che l’assenza di nazisti la rende meno appetibile a livello di narrativa di genere, ma in pratica mi è difficile ricordare grandi produzioni ambientate nel 1918, mentre invece nella Seconda in pratica c’è l’intera cinematografia hollywoodiana schierata.

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      • Claudio Capriolo ha detto:

        Soldati di colore avevano combattuto anche nella guerra civile, volontari nell’esercito unionista, come racconta il film Glory – Uomini di gloria del 1989 che valse un Oscar a Denzel Washington.
        A proposito di film sulla prima guerra mondiale: ho visto in tempi recenti 1917, che non mi è dispiaciuto; fra quelli visti da ragazzo ricordo Il barone rosso con John Phillip Law e l’impressionante E Johnny prese il fucile di Dalton Trumbo, entrambi del 1971. Ma tra i miei preferiti ci sono due capolavori di fine anni ’50, molto diversi fra loro: La grande guerra di Monicelli e Orizzonti di gloria di Kubrick.

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      • Lucius Etruscus ha detto:

        Non ho ancora avuto il coraggio di vedere 1917, perché ormai il genere “film di guerra” è troppo delicato: quelli vecchi sono propagandistici, quelli nuovi sono revisionistici, due modi diversi per intendere lo stesso concetto, cioè “falsi”. Però per motivi anagrafici trovo più divertenti quelli classici, che non si prendevano così sul serio come quelli moderni, finti Messia con la Verità (falsa) in tasca.
        Preferisco quindi “I cannoni di Navarone” o “Quella sporca dozzina”, a proposito di film-fiume, a roba moderna dove passano l’intera vicenda a sputare sui francesi, dimenticandosi che i nemici erano i tedeschi (Sì, “Dunkirk”, sto parlando di te!). Preferisco “Dove osano le aquile”, peraltro in programmazione sulla RAI questi giorni, e persino prodotti minori come “7 senza gloria”. Per non parlare del mio amato cinema d’assedio, che ho raccontato in un lungo ciclo a cui sono affezionato. Vedere Humphry Bogart che attraversa il Sahara in carro armato plagiando un film sovietico è una emozione che il politicamente corretto non potrà mai offrirmi 😛

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      • Claudio Capriolo ha detto:

        Ah ah, lo credo bene 🙂
        Tra i film sulla prima guerra mondiale ne avevo dimenticato uno francese, non recentissimo, che mi è piaciuto, Una lunga domenica di passioni: l’hai visto?

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      • Lucius Etruscus ha detto:

        Credo di no, il titolo non mi dice nulla.

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  5. loscalzo1979 ha detto:

    Mi recupero il film, che sembra interessante.
    Interessante anche come piano piano, si stia scoprendo sempre di più il contributo e la presenza di afroamericani nell’esercito regolare nelle due guerre e di come siano stati coinvolti anche in scenari di un certo rilievo.
    Sicuramente il film si prende delle licenze poetiche, come ci si aspetta quando si racconta fatti storici riguardanti gli USA o le due guerre, è nel DNA del cinema americano (e non solo)

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      Il problema è che a forza di infilare afroamericani anche dove non c’erano, non si capisce più quali siano i prodotti politicamente corretti (tipo “Bridgerton”) e quelli storicamente accurati come questo 😛

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      • loscalzo1979 ha detto:

        boh, a me sembra abbastanza palese, ma probabilmente, lo spettatore generico, che non ha magari le stesse basi di conoscenza mie e tue, può confondersi

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      • Lucius Etruscus ha detto:

        Mi metto nel novero degli spettatori generici, infatti appena ho iniziato questo “The Great War” ero convinto non ci fossero soldati neri nella Prima guerra mondiale, visto che non mi sembra se ne parli mai: proprio perché ci sono attori di colore ovunque non si sa più quanto crederci. Temo che la follia del politicamente corretto abbia spalancato le porte al revisionismo più becero e alla storia falsa propria dei totalitarismi. Prima era l’Autorità che imponeva la sua versione della storia, ora è il popolo che la esige per paura di sembrare scorretto. Che tempi…

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      • loscalzo1979 ha detto:

        non credo molto alla teoria del “politicamente corretto” dietro queste scelte, credo siano più palesi strategie di marketing… comunque, come detto in un altro ambito, forse è tempo di un bell’articolo sul blog sulla questione

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      • Conte Gracula ha detto:

        Infatti il politicamente corretto, di base, esprime un’altra filosofia: non insultare nessuno, che però è passato a diventare non offendere nessuno e si è arrivati poi a “per rappresentare una minoranza vale tutto, tranne rappresentare più di una minoranza etnica e una sessuale per volta, la storia (così come la Storia) è un accessorio”.

        Credo che l’inclusione forzata di categorie un tempo sotto o male rappresentate, magari ottenuta anche trasformando icone con cambi strategici (sesso, provenienza geografica o culturale, tendenze amorose, varie ed eventuali) sarebbe più tollerata, pur venendo riconosciuta come un difetto, se almeno sugli altri versanti le storie non fossero così difettose per logica, caratterizzazione dei personaggi o un minimo di aderenza alle fonti, nel caso delle opere derivate.

        E invece si fa prima a buttarla in caciara: la categoria dei “guerrieri della giustizia sociale”, almeno nelle sue frange più superficiali, se provi a dire che un’opera è venuta su particolarmente storta o noiosa, ti accusa di essere qualcosa.
        Con Anelli del potere ci si guadagnava una medaglia da razzista, per esempio, anche se passavi oltre la questione dell’elfo cubano o del canone tolkeniano pesantemente distorto, per indicare i problemi di caratterizzazione, coerenza psicologica, logica, ritmo, regia, fiori frutta e città.
        Perché al di là di pochi effetti e belle visioni di paesaggi a volo d’uccello fatte col PC, anche sul versante tecnico la serie mostrava il fianco in diversi punti.

        (En passant: Lucius, so che tu detesti Tolkien e che la serie Anelli del potere su Amazon è prima di tutto inutilmente lenta, ma penso che ad analizzare le situazioni e le inquadrature col mocroscopio, scopriresti un mondo di errori da principianti a tutti i livelli, in una serie che vanta 60 milioni di spesa a episodio, che praticamente trasforma la prima stagione in uno Scary Movie involontario. E parlo di Scary Movie 5, manco del primo 😂 )

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      • Lucius Etruscus ha detto:

        Se già non sopporto le versioni di qualità di Tolkien, figurarsi quelle fatte male 😀

        I casini della società americana temo che nascano dalla confusione fra “uguali diritti”, che è una questione giusta e stupisce la si debba sottolineare dopo decenni di lotte in tal senso, e “società immaginaria dove non esistono offese”, che solamente un popolo di beoti come quello social può perseguire.
        Per almeno i primi quindici anni della mia vita tutti, ma proprio tutti mi hanno preso in giro per gli occhiali – negli anni Ottanta non li portava nessuno! – e per il mio nome (Lucio), il più raro d’Italia e portato solo da due noti cantanti: certo che ci soffrivo, certo avrei voluto non aver vissuto quelle offese (comunque leggere), ma i miei diritti civili non sono mai stati messi in discussione.
        Invece ora pare che se qualcuno mi dà del “quattrocchi” o mi sfotte per il mio nome sta minando la mia libertà civile e posso denunciarlo in Tribunale, fargli perdere il posto di lavoro e cancellarlo dalla società. Mi sembra uno zinzinino esagerato…

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  6. Willy l'Orbo ha detto:

    Che meraviglia: si parte con Perlman, Zane, la Pineta di Ostia (insomma, con la Z a caratteri cubitali), per poi addentrarsi e finire con una lezione si storia. Un post davvero sorprendente ed “avviluppante”, la mia mente ha appuntato tanti aspetti interessanti, oltre alla voglia di vedere questo film quanto prima! 🙂

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  7. Marco Vecchini ha detto:

    Surreale la storia dei tedeschi sul fucile, come i bambini che giocano a pallone.
    Non che siamo migliorati tanto…

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  8. Il Moro ha detto:

    Sono colpito, sia dall’accuratezza del film, inaspettata, sia da quella delle tue ricerche, anche se a quella invece siamo abituati.

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