Continua la rubrica mensile in cui Andrea K. Lanza (del blog Malastrana) ci racconta delle sue scorribande filmiche.
Esistono cult movie che sfidano non solo il tempo, ma i continenti e le culture diverse, attualissimi anche ora, a distanza di decenni: A Better Tomorror (ma lo stesso si può dire del magnifico seguito) è uno di questi.
Girato ad Hong Kong, nel lontano 1986, era un’opera seminale, capace di influire sul genere action come nessuno faceva da anni, ma anche fucina, come i grandi classici alla Steve McQueen, di personaggi talmente iconici da entrare non solo nella storia del cinema, ma nella cultura pop. È il caso di Chow Yun Fat, prima di quest’opera soltanto un buon attore come tanti, protagonista di interessanti drammi di Anne Hui come The Story of Woo Viet del 1981, dopo, una leggenda del cinema. Il suo fiammifero in bocca, gli occhiali neri e il cappotto scuro sono look imitati, da Hong Kong a Quarto Oggiaro, negli anni, da una legione di fan sempre più crescente, nata e cresciuta con gli heroic bloodshed di John Woo e le canoniche due pistole in pugno.
Dopo tanto tempo era logico che si concretizzasse un remake. Prima ci hanno pensato i coreani con il discreto A Better Tomorrow del 2010, diretto con nerbo da Hae-sung Song, poi ovviamente la palla è passata alla Cina con il meno interessante A Better Tomorrow del 2018 di Sheng Ding, uno dei registi preferiti dalle produzioni Jackie Chan.
È proprio la regia ad essere il punto più debole di questa produzione, figlia di una scuola di action videoclippati di stampo Michael Bay con il montaggio velocissimo e le inquadrature che durano pochi secondi. Già il migliore Benny Chan (pace all’anima sua), a fine anni ’90, aveva fatta sua la lezione con gli sfuocati Gen-X Cops (1999) e Gen-Y Cops (2000), prodotti così internazionali da essere apolidi, stranieri in ogni terra. Shen Ding, anche sceneggiatore, non riesce a far risaltare il dramma dei personaggi, e perde l’occasione di sfruttare anche l’idea formidabile di far muovere i suoi antieroi , così da non essere beccati dalla polizia, non per le strade, ma sotto le fogne, al pari dei ratti.
Kai Wang è l’unico del cast a tenere testa al modello John Woo: la sua recitazione densa di pathos e di carisma non fanno rimpiangere il personaggio di Sung Tse-Ho, reso celebre dal grande Ti Lung. Tianyu Ma invece regala una performance sottotono, ma bisogna rendere atto che il suo ruolo, un tempo del rimpianto Leslie Cheung, sarebbe sbocciato con grinta solo nel meraviglioso seguito.
Il peggiore però, e qui la cosa è imperdonabile anche perché alla base c’era il Mark di Chow Yun Fat, è il taiwanese Talu Wang, troppo efebico, fighetto e affetto da una recitazione tarantolata, overacting, a metà tra la parodia e l’indecenza. Shen Ding, per probabile eccesso di rispetto verso il modello originale, non lo veste neppure con il classico look alla A Better Tomorrow, rendendo così il film un action cinese uguale a tanti altri, dalla trama speculare al film di John Woo ma dalla resa non dissimile ad un prodotto direct to video alla Steven Seagal di metà anni ’90.
La pellicola funziona nel suo effetto nostalgia, e qui può scattare la lacrimuccia, soprattutto quando la voce di Leslie Cheung viene riprodotta da un vecchio 33 giri, ma fallisce nel suo andamento suicida che cerca di sottrarre più che aggiungere elementi alla trama originale. È il caso dell’iconica scena delle pistole inserite nei vasi che qui diventa l’occasione per Talu Wang di muoversi alla Nicholas Cage in un contesto simile ma deplorevole nei cambiamenti inessenziali.
Non male il finale però che in extremis riesce a esprimere la drammaticità shakespeariana dell’opera del 1986 con una chiusa ancora più tragica e disperata.
Certo che la colonna sonora del compianto Joseph Koo è una di quelle che spacca ancora, a distanza di 37 anni dalla prima volta.
A Better Tomorrow (2018) è spuntato come un fungo dopo la pioggia, così a tradimento, nel catalogo Full Action di Prime video, doppiato in italiano, ma di certo non una di quelle visioni imprescindibili. Se proprio dovete buttarvi su un buon remake dell’opera di John Woo recuperatevi la pellicola coreana del 2010 con un intenso Song Seung-heon che non fa rimpiangere Chow Yun Fat. Oppure, ancora meglio, guardatevi l’originale del 1986 (sempre su Prime Video), magari accompagnato dagli ottimi seguiti.
Andrea K. Lanza
P.S. Ringrazio Andrea per la disponibilità e a fra un mese per la nuova puntata della sua rubrica.
Per diventare re dell’animazione serve tanto talento ma anche tanta fortuna, e per capire quanto Ray Harryhausen abbia avuto di entrambi penso sia importante aprire una piccola parentesi.
Il film Il re dell’Africa (1949) è l’unico a contenere una sorta di Trinità dell’animazione. C’è il decano Willis O’Brien e la giovane promessa Ray Harryhausen, assunto perché il suo lavoro era di gran lunga migliore rispetto a tutti gli altri animatori provinati, ma il lavoro è tanto, quello scimmione richiede un sacco di tempo, così viene assunto il danese Pete Peterson, anche lui una grande promessa dell’animazione a passo uno, purtroppo infranta.
Pete Peterson sul set de Il re dell’Africa
Il successo del film è l’occasione per tutti e tre gli animatori di risplendere, ma le cose non vanno così. Il 63enne O’Brien è ormai alla fine della corsa mentre Pete approfitta del nuovo lavoro per sposarsi e sua moglie muore di infarto tre mesi dopo le nozze. Ci vorrà tempo per tornare all’animazione.
Nel 1957 Jack Dietz, produttore de Il risveglio del dinosauro, vuole fare di nuovo uno di quei film pieni di mostri ma ormai Harryhausen sta volando per conto suo, in sodalizio con il produttore Charles Schneer, così Dietz si rivolge a O’Brien e Peterson, che lavorano nel garage di quest’ultimo. I due vivono un’ultima cavalcata lavorando insieme a Lo scorpione nero (1957), poi il decano e la nuova generazione escono di scena. Pete Peterson viene colpito da sclerosi multipla ma non perde le speranze perché le mani per animare gli funzionano… finché un cancro al fegato se lo porta via nel 1962. Due mesi dopo che già O’Brien era morto di infarto.
L’animazione a passo uno è un dio crudele, e per un Ray Harryhausen che porta alle stelle ce ne sono tanti che cadono nella polvere.
(La triste storia di Pete Peterson è raccontata da Paul Mandell nella rivista “Cinemagic” n. 28, senza data ma intorno al 1984).
La Terra contro i dischi volanti
Nell’estate del 1956 esce negli Stati Uniti Earth vs. the Flying Saucers di Fred F. Sears. Ricevuto il visto italiano il 13 settembre 1956, la CEIAD lo porta in sala solo dal 29 maggio 1957 con il titolo La Terra contro i dischi volanti.
Non ho trovato tracce di trasmissione televisiva. La Columbia TriStar lo porta in VHS nel 1997 ed è stato più volte ristampato in DVD, prima da Columbia-Sony poi da Sinister Films.
Quella forma mi è familiare…
Già ho ampiamente parlato del fenomeno UFO che ha colpito l’immaginario americano (e quindi italiano) dal 1947 in cui Kenneth Arnold avvistò degli oggetti che volavano come dei piatti lanciati in aria, e la stampa andò in brodo di giuggiole inventando il termine flying saucer, in italiano “piatti volanti” ma poi si è preferito il più dignitoso “dischi volanti”. In breve tempo il cinema è obbligato ad interessarsene perché è argomento che interessa una fetta enorme della popolazione, quindi è il momento che i “piatti” volino… con l’animazione di Ray Harryhausen.
E Indipendence Day… muto!
Il film non mi sembra degno di nota, è la solita storia degli alieni che vogliono invadere la Terra cominciando da Washington, e inseguendo gli umani uno ad uno, cespuglio per cespuglio, quindi mi sembrano innocui: impiegheranno mille anni a conquistarci, non mi preoccuperei più di tanto. Infatti il protagonista pensa più a fare il mollicone con la donna di turno che a difendere la Terra, ma per fortuna gli ultimi minuti ci regalano un po’ di interesse.
E George Washington… muto!
I dischi volanti cattivi prendono di mira i monumenti presidenziali americani, così Ray Harryhausen si mette a ricostruire minuziosamente celebri monumenti come l’obelisco dedicato a Washington e la cupolona del Campidoglio di Capitol Hill. Bravo Ray, di solito gli americani vanno a distruggere i monumenti altrui, ogni tanto tocchi pure a loro!
Pure er cuppolone!
A parte queste brevi animazioni onestamente è un film che non desta altro interesse, se non per lo studio su questi primi prodotti a veicolare l’UFO-mania dell’epoca.
A 30 milioni di Km dalla Terra
Esattamente un anno dopo l’asticella si alza di parecchio, perché esce 20 Million Miles to Earth di Nathan Juran. Ricevuto il visto italiano il 30 agosto 1957, la CEIAD lo porta in sala solo dal 21 aprile 1958 con il titolo A 30 milioni di Km dalla Terra.
Non ho trovato tracce di trasmissione televisiva. La Columbia TriStar lo porta in VHS nel 1997 ed è stato più volte ristampato in DVD, prima da Columbia-Sony poi da A&R Productions.
Anche i mostri venusiani hanno cominciato da piccoli
Di ritorno da Venere, un razzo sonico americano va a schiantarsi davanti alle coste del paesino siciliano di Gerra (?), dove viene salvato l’unico superstite ma anche uno strano contenitore: come al solito intervengono i “tocconi”, l’uovo venusiano si schiude e ne fuoriesce un mostrino piccolo che però cresce a velocità incredibile.
Appena diventato grande il mostro sfugge al controllo… e va subito nella Pineta di Ostia! È un’ambientazione classica a cui non si può resistere.
Anche su Venere è famosa la Pineta di Ostia!
Nell’intervista del 1973 che presenterò a fine ciclo Harryhausen racconta che all’inizio volevano mostrare anche un prologo ambientato su Venere, ma avrebbe allungato troppo la storia e soprattutto sarebbe costato troppo, così si procede rapidamente: da un paesino siciliano sperduto… siamo subito a Roma! E ti pare che non tornavano a distruggere monumenti altrui?
Dopo i monumenti americani, ora tocca a quelli romani
Finito di smontare il Palatino coi Fori Romani, il mostro si ritrova al celebre zoo capitolino, scena peraltro girata nel vero zoo, un’attenzione che non mi aspettavo dal film, visto che prima ha cercato di spacciarci tipiche fattorie americane per l’entroterra siculo!
Il vero zoo di Roma, meta fissa per ogni bambino della Capitale
Harryhausen racconta che l’elefante vero che la produzione ha ottenuto era così piccolo che non corrispondeva alle proporzioni richieste, così nell’unica breve scena in cui è inquadrato gli hanno affiancato un addestratore molto basso, perché l’animale sembrasse più grande di quanto fosse in realtà.
Un gioco di prospettiva degno di un mago
Altro aneddoto è quando il Comune romano si è molto seccato, perché aveva appena rifatto il manto stradale… che arrivano i carri armati americani a percorrere i Fori Imperiali! Pare che sia stato lasciato più di un segno sul terreno, durante la lavorazione, ma posso tranquillizzare Ray: buche e strade dissestate sono tipiche di Roma più del Colosseo!
Non puoi sistemare una strada che arrivano i carri armati ammaricani!
E a proposito dell’Anfiteatro Flavio, se King Kong si arrampicava sull’Empire State Building questo mostro venusiano si arrampica sul Colosseo, decisamente più facile da scalare e parecchio più basso, tanto da rendere implausibile la sua morte una volta caduto. Ma va be’, toccava mostrare un po’ di monumento, fra una distruzione e l’altra.
In attesa di Bruce Lee, ecco il mostro venusiano sul Colosseo
Al di là della storia, la particolarità che colpisce di più in questo film è l’enorme passo avanti artistico di Harryhausen, che si lancia in una serie di scene piene di virtuosismi tecnici che oggi noi diamo per scontati ma che all’epoca lo erano molto meno, anche per via delle ristrettezze economiche di queste produzioni: sono lontani i tempi in cui Willis O’Brien aveva tempo e soldi per fare virtuosismi con il suo Kong, ma qui Ray riesce a creare più piani visivi e a “infilare” il suo mostro in un alcune scene davvero deliziose.
Attori in primo piano, il mostro in secondo e in terzo pieno gente che passa!
Ray sta crescendo a vista d’occhio, come il mostro del film, e sta rendendo le proprie creature sempre più fuse con le scene dal vivo e interagenti con gli attori umani.
L.
P.S.
Vi ricordo che ho già presentato il romanzo-novelization del film, firmato da Henry Slesar ed uscito per “Urania” Mondadori nelle nostre edicole qualche mese prima della pellicola in sala.
Il 26 aprile 2023 ha compiuto sessant’anni uno dei più grandi eroi marziali internazionali, e visto che ho scovato una sua biografia mi sembra la congiunzione astrale perfetta per un viaggio nell’opera del Fist of Legend.
Legend of the Red Dragon
Come abbiamo visto, nel 1993 Jet Li ha inaugurato il suo nuovo ruolo di produttore sfornando ben sei film di fila, che all’inizio hanno incontrato il favore del pubblico ma poi i biglietti venduti sono sempre meno, titolo dopo titolo. Il 1994 si apre con l’attore-produttore che si ostina a non capire l’aria che sta cambiando, e rimane fisso stabile sulla pellicola marziale di ambientazione storica.
Diventato famoso impersonando un personaggio reale, Wong Fei-hung, Jet poi si è calato nei panni di un’altra leggenda cinese come Fong Sai-yuk e ora… che si fa? Si cambia e si prova la strada tracciata da John Woo? Macché, il pantheon cinese sciaborda di eroi leggendari con cui riempire film in costume: stavolta è il turno di Hung Hei-gun, o Hung Hsi Kuan, o Hong Xi Guan, ma lo trovate scritto anche in altri modi. Chi ha seguito il mio viaggio nel cinema marziale storico cinese, ricorderà che questo personaggio lo abbiamo già incontrato con il volto di Chen Kuan-Tai in Heroes Two (1974) di Chang Cheh.
Ma l’abbiamo anche visto in chiave Z nel cialtronesco Bruce Lee l’invincibile del kung fu (1977), interpretato da Li Chung-Chien, e soprattutto quello stesso 1994 lo troviamo interpretato da Lam Ching-Ying ne La vendetta degli Shaolin di Lee Chiu.
Sono sicuro che gli esperti di mitologia cinese sapranno apprezzare le differenze fra Hung Hei-gun e gli altri eroi similari che combattevano gli spietati Manciù invasori della Dinastina Qing, che per trecento anni ha sottomesso i “veri” cinesi (l’etnia Han) con leggi ingiuste e soprusi vari, ma da occidentale mi è davvero difficile cogliere le sfumature del personaggio. È il classico “maestro ribelle” che lotta per la giustizia in un mondo ingiusto, al di là del nome che porta.
A Jet Li mancava giusto un altro vero eroe leggendario cinese
Che però nel cervello di Jet Li ci siano rotelle che girano è sicuro, a pelle il produttore sente che deve cambiare stile e farsi più eroico ed epico, così cosa fa? Quel gran paraculo di Jet fa quello che ogni bravo autore deve sempre fare: rubare dai migliori.
Il film infatti inizia con Hung Hei-gun che torna al proprio villaggio e trova tutti massacrati perché i Manciù li considerano ribelli. L’unico sopravvissuto è Ting, suo figlio infante che dubito capisca il discorso fondamentale che gli fa il padre:
«Ora sono rimasto solo e devo nascondermi ma tu, figliolo… sarai tu a dover decidere quale sarà il tuo destino. Se sceglierai la spada vivremo e combatteremo insieme, ma se sceglierai il tuo giocattolo preferito dovrò mandarti nell’Aldilà a raggiungere tua madre.»
Spero abbiate riconosciuto il monologo che dà inizio alle vicende di “Itto Ogami“, il primo mandaloriano.
Il manga originale di Kazuo Koike del 1970
E non è “mandaloriano” per caso, visto che il sesto episodio di quel disastro assoluto di “The Book of Boba Fett” (2022) ricopia la stessa identica scena.
Baby Yoda deve scegliere fra la spada e… la cottina di maglia!
In mezzo ai due, c’è quel Drago Rosso di Jet Li
Questa è la prova che Jet Li ha capito benissimo che non è più tempo di eroi svolazzanti, Pierini cinesi, lunghissime scene da mal di testa alla Tsui Hark e via dicendo: John Woo con i suoi eroi epici e tragici ha spaccato tutto e in quel 1993 ha portato il suo stile a Hollwyood, con Senza tregua, convincendo tutti i cineasti locali a imitarne lo stile.
Jet ha capito che deve diventare eroe tragico, ed essendo lui un grande fautore della tradizione classica cinese… per prima cosa pensa ad un eroe della narrativa giapponese!
Stando sempre al consueto HKMDb, 洪熙官 (“Hong Xiguan”) esce nei cinema di Hong Kong il 3 marzo 1994 e viene distribuito a livello internazionale con il titolo The New Legend of Shaolin.
Nel 2000 la Spartan lo fa girare per li mondo e nel 2001 se lo compra la Columbia, che in quel momento sta partecipando alla corsa al cinema marziale: nel 2003 arriva persino nella distratta Italia! Il prezzo è una cifra improponibile, ma all’epoca – ormai vent’anni fa – ero così contento che quel nuovo eroe marziale conoscesse addirittura delle ottime edizioni DVD nostrane che ho speso a occhi chiusi: La leggenda del Drago Rosso è uno dei tre DVD con Jet presentati quell’anno da Columbia TriStar nelle nostre videoteche.
Se Itto Ogami gira per paesini portando suo figlio in una carrozzina, Hung Hei-gun è molto più eroico e porta suo figlio… in testa! È chiaro che la situazione è sfuggita al controllo di Jet, che ha fatto un primo passo ma è ancora immerso fino alle ginocchia nello stile folle alla Tsui Hark.
Davvero questo sarebbe un modo comodo di viaggiare?
Hung Hei-gun e figlio devono nascondersi dai perfidi Manciù che li cercano e l’uomo sbarca il lunario offrendosi come guardia del corpo, così finirà nella casa di un ricco signore avaro il quale sta per sposare una donna (Chingmy Yau) che non sa essere una ladra, la quale viaggia con la madre altrettanto truffatrice. E via di commedia degli equivoci, situazioni buffe e tutto quello che John Woo ha spazzato via ma Jet si ostina ancora a tenere su schermo.
Ricordatevi di Xie Miao, perché lo incontreremo di nuovo e meglio
Quando arriva il cattivone e afferma di avere il corpo reso invincibile da una strega, e come se non bastasse gira a bordo di uno scarafaggio meccanico, è chiaro che il nostro attore-produttore è ancora fermo a uno stile che il pubblico di Hong Kong ha dimostrato di non amare più. Infatti il film non è proprio un successone ai botteghini, 19 milioni sono tanti ma siamo parecchio lontani dai 30 che Jet guadagnava già solo all’inizio del 1993.
Lo stesso mese una delle irresistibili commedie di Stephen Chow (Hail the Judge) guadagna 30 milioni, diretta dallo stesso regista di questo film (Wong Jing), chiaro segno che quando il pubblico vuole ridere non è al genere marziale che guarda. E finalmente quel capoccione di Jet ci arriva…
The Bodyguard from Beijing
Finalmente i panni storici possono essere tenuti nell’armadio e la lezione di John Woo comincia a fare effetto: va bene la Cina tradizionale, ma il pubblico di Hong Kong ama anche gli echi occidentali, oltre che storie epiche di eroi tragici.
Dall’Archivio Marziale Etrusco
Guarda caso a guidare il “rinnovamento” è quel Corey Yuen (sia regista che curatore delle scene d’azione) che ha regalato a Jet una delle sue scene più iconiche, nel finale di Fong Sai-yuk II (1993). Mi piace pensare che Corey fosse della “scuola Woo”.
Il 28 luglio 1994 esce ad Hong Kong 中南海保鑣 (“Guardia del corpo di Zhongnanhai”), distribuito a livello internazionale come The Bodyguard from Beijing, dando per scontato (credo giustamente) che ben pochi occidentali sappiano cosa sia lo Zhongnanhai («è un complesso di edifici adiacente alla Città proibita nel centro di Pechino», mi spiega Wikipedia).
Le manine candide dei fratelli Weinstein lo portano nelle videoteche americane con il titolo The Defender e questa edizione arriva anche in Italia, in lingua inglese sottotitolata in italiano. Che ci frega a noi del cinema marziale? Poi tutte le case che in quel periodo ci hanno puntato si chiedono come mai abbiano fallito…
Va sempre ricordato che sebbene a noi sembrino tutti uguali gli asiatici sono tutti diversi, ma non sentitevi in colpa: fra di loro sono molto più razzisti di noi! Perciò è bene sottolineare come Jet Li sia un cinese continentale che lavora in una Hong Kong che è colonia britannica (e, detto per inciso, oggi è probabilmente l’unica colonia mai esistita che abbia nostalgia dei suoi invasori, perché la lontana Inghilterra è molto meglio della vicina Repubblica popolare!), ed è su questo che il film gioca, principalmente.
L’esercito cinese sforna solo Terminator!
Dopo aver assistito a un omicidio di mafia, la giovane Michelle (Christy Chung) diventa super-testimone e in attesa del processo entra nel programma di protezione della polizia di Hong Kong, rappresentata da due poliziotti scalcagnati a cui non affideremmo neanche la protezione di un gratta e vinci usato. A capo dell’operazione infatti c’è Fat Po (Kent Cheng), nomen omen, poliziotto sovrappeso più impegnato a perdere soldi ai cavalli che a fare il proprio lavoro.
Tranquilla, Michelle, sei in un ventre di vacca!
Il ricco amante di Michelle pensa che la polizia di Hong Kong non basti a proteggerla dalla mafia, così assume personalmente una guardia del corpo proveniente da Pechino, e inizia il gioco degli “strambi sbirri” alla Danko (1988), con il poliziotto metropolitano dal buon cuore ma dai modi “scialli” e il poliziotto da regime che è una super-mega macchina da guerra.
Allan (Jet Li) è un Terminator dell’esercito cinese che però secondo i suoi superiori ha commesso un passo falso, perché durante un’esercitazione ha salvato l’uomo che doveva proteggere… minacciandolo di morte! Ha comunque raggiunto l’obiettivo di proteggerlo, ma la tecnica non canonica ha fatto sì che i suoi superiori lo prestassero con piacere ad Hong Kong, che agli occhi dei cinesi è una retrocessione.
Fat Po, fra una corsa di cavalli e l’altra, non ha piacere che arrivi un militare comunista a farsi bello nella sua città, così gli organizza una prova di attentato… scoprendo che Allan mena duro! In pochi secondi Jet Li ci ricorda l’estrema precisione delle sue tecniche e l’incredibile velocità di esecuzione, anche al netto delle pellicole velocizzate di Hong Kong.
Una sorta di Danko, ma per nulla nato stanco!
Il resto è un classico, la bella che non ne vuol sapere di avere intorno una guardia del corpo che la comanda a bacchetta, screzi vari poi Allan la salva da un agguato – uccidendo tipo mille cattivi! – e allora… scatta l’ammmòre.
Molti, compreso il biografo Parrish, hanno voluto vedere in questo film una sorta di versione cinese del successo dell’epoca The Bodyguard (1992) con Kevin Costner, il che magari può anche essere, ma nel caso il soggetto – non certo originale – è stato rimaneggiato a mestiere. E Kevin al massimo faceva gli occhi da triglia, qui Jet stermina mezza città!
Parrish incolpa la crisi del cinema di Hong Kong per il risultato non scoppiettante del film al botteghino – 11 milioni di dollari di Hong Kong – e che appunto è un buon risultato al netto della crisi degli incassi, però devo fare l’avvocato del diavolo: due mesi dopo From Beijing with Love (settembre 1994), il capolavoro comico di Stephen Chow, incassa 37 milioni a mani basse, tutti meritatissimi perché è un film geniale. Diciamo che non è il cinema ad essere in crisi, è solo il genere marziale. Infatti dopo altri due mesi Tsui Hark con il quinto episodio di Once Upon a Time in China scende a 4 milioni.
Jet finalmente prova a farsi eroe wooiano ma c’è ancora da lavorare
Azzardo l’ipotesi che il povero Jet Li si sia lanciato nell’impresa marziale nel momento esatto in cui il genere stava calando nei gusti locali, una grande sfortuna perché questo Bodyguard è un ottimo prodotto, lontano dallo stile in costume ma comunque rispettoso dei canoni di Hong Kong, con ottime scene marziali coreografate da Corey Yuen, sempre più in gamba, ed è una visione decisamente superiore rispetto ai precedenti titoli dell’attore-produttore, almeno parlando da occidentale.
Malgrado i risultati non splendenti, Jet Li prosegue per la sua strada a testa alta… e pugni chiusi.
Continuiamo a parlare della serie TV “Friday the 13th: The Series“, quella senza Jason, ma essendo di una bruttezza senza confini – roba che neanche Jason in persona riuscirebbe a resistere – procedo velocemente, a tre episodi per botta.
Ringrazio di cuore la nostra amica Vasquez per avermi segnalato la presenza su YouTube di un canale con TUTTI gli episodi delle tre stagioni di questa serie: andate e prendetene tutti, prima che lo cancellino.
Episodio 2×13 (39) L’occhio della morte
(Eye of Death)
Andato in onda il 30 gennaio 1989, l’episodio è diretto da Timothy Bond, regista televisivo che tornerà spesso nella serie: Italia1 lo manda in onda nella notte fonda del 9 agosto 1996, replicato l’11 luglio 1998.
Un proiettore di diapositive maledetto?
Ormai lo sapete, niente ha senso e niente ha un qualsiasi collegamento logico in questa serie, perciò non ci stupiamo che il ricco collezionista Atticus Rook (Tom McCamus) usi una Lanterna magica (Magic lantern) per proiettare sulla parete di casa sua una diapositiva risalente al 17 settembre 1862, quando a Sharpsburg (Maryland) si è svolta la battaglia che i vincitori nordisti chiamano Battaglia di Antietam. Qui Atticus si fa amico il generale sudista Robert Lee rivelandogli il “futuro”, poi si ruba un po’ di cimeli e se ne torna nel presente, dove può farsi bello con gli amici collezionisti perché ha oggetti della Guerra civile americana in perfetto stato, da vendere a prezzi altissimi. (Possibile nessuno gli chieda un certificato d’origine?)
Il funzionamento della lanterna magica lo dobbiamo evincere da soli, bisogna ammazzare qualcuno perché l’apparecchio apra il varco spazio_temporale della durata di tre ore, ma perché si possa andare solo a Sharpsburg nel 1862 esula dalle possibilità di chi non abbia la mente bacata degli autori di questa serie.
La faccia del tipico collezionista di reperti di guerra
Il sempre incapace Ryan (John D. LeMay) per inseguire Atticus si ritrova incastrato nel passato e toccherà a Micki (Louise) e Marshak (Chris Wiggins) inventarsi qualcosa, appena la smettono di dire baggianate e di fare cose improvvisate.
Da notare come nessuno si preoccupi di star cambiando il passato, anche perché… il tempo a quanto pare cambia solo quando vuole lui. Così ora nei libri di storia c’è una foto di Ryan catturato dai sudisti, anche se ormai il continuum è stato riparato: perché il futuro è cambiato quando è stato modificato ma non quando è stato sistemato? Misteri temporali.
Episodio 2×14 (40) ?
(Face of Evil)
Andato in onda il 6 febbraio 1989, l’episodio è diretto da William Fruet, regista televisivo che nello stesso periodo è arrivato in Italia con la miniserie “La guerra dei mondi”.
Il ritorno dello specchietto maledetto
Ricordate l’episodio 1×15, Lo specchio della vanità, con la ragazza bruttina che usava uno specchietto per far innamorare di sé gli uomini? Si trattava di uno degli oggetti maledetti che i nostri blandi eroi non sono riusciti a recuperare: che fine ha fatto lo specchietto?
Malgrado quell’episodio finiva con lo specchietto perso in un prato, scopriamo che invece per tutto questo tempo l’ha conservato Joanne (Gwendoline Pacey), la sorella della criminale, il quale sa benissimo il tremendo potere dell’oggetto ma lo conserva per ricordo. Finché per errore non finisce in mano alla spietata Tabitha (Laura Robinson), modella non più al “top” che lo usa per tornarci!
Specchietto delle mie brame, chi è la più top del reame?
Per motivi ignoti ora lo specchio ha cambiato potere, e si “nutre” della morte delle persone per donare bellezza alla donna vanesia che ora lo possiede, e lo usa per rimanere la più bella del reame.
Apprezzo la critica del mondo della moda e della sua vanità delle vanità, ma la sceneggiatura è scritta così male che oltre al mondo della moda è un colpo mortale anche alla narrativa tutta.
Episodio 2×15 (41) ?
(Better Off Dead)
Andato in onda il 13 febbraio 1989, l’episodio è diretto da Armand Mastroianni, quasi esordiente e che è sempre rimasto nel mondo dei prodotti infinitesimali.
Riconoscete le differenze nell’acconciatura?
No, non è l’attacco dei cloni di Micki, è l’amica Linda (Camilla Scott) venuta a trovare la nostra eroina, probabilmente per un concorso di imitatori di acconciature vertiginose. La tapina accetta di uscire con Ryan ignorando la maledizione che lui porta con sé: tutte le donne di cui si innamora muoiono, ma stavolta il nostro eroe non è innamorato quindi la povera Linda è solo rapita da un dottore pazzo.
Il dottor Warren Voss (Neil Munro) infatti ha la figlia Amanda malata e ha deciso di trovare una cura con esperimenti ben poco bioetici, cioè rapendo donne ed estraendo loro materiale dal «lobo mediano dell’emisfero sinistro del cervello», in cerca del dosaggio perfetto per curare la figlia. Scoprendo così che togliere materiale in quell’area… toglie umanità alle persone e le fa diventare bestie primitive! Ma perché?
È il momento della siringona maledetta!
I suoi folli esperimenti, che potevano nascere solo dal lobo mediano di pazzi furiosi come gli autori di questa serie, sono compiuti mediante una «Antica siringa d’argento della collezione di Thomas Neill Cream», che da Wikipedia scopro essere meglio noto come l’avvelenatore di Lambeth, attivo fra Stati Uniti e Gran Bretagna a fine Ottocento. Marshak nella sua descrizione dice che Cream era Jack lo Squartatore ed ecco perché il dottore fa esperimenti solo con le prostitute: ma che cacchio c’entra?
La siringa con cui hanno lobotomizzato gli autori di questa serie
Mentre il dottore pazzerello porta avanti esperimenti pazzerelli, ma solo perché privi di qualsiasi logica, i nostri eroi fanno robe, salvano la siringona del dottor Cream e la mettono in salvo nel “sotterraneo”, una delle tante traduzioni del vault, il Museo degli Oggetti Maledetti.
Per fortuna Linda stavolta non era l’oggetto amoroso di Ryan, quindi è solo rimasta traumatizzata a vita dall’essere stata cavia umana di uno scienziato pazzo: di solito l’interesse di Ryan porta dritto alla tomba.
Altro episodio di straordinaria inconsistenza e follia allo stato liquido, colante dal lobo mediano di autori chiaramente subumani.
Sul canale YouTube di DGamer94 da qualche giorno è stato pubblicato un video davvero particolare: il gameplay del videogioco It Takes Two (EA 2021) montato come fosse un film e doppiato in italiano per l’occasione.
A curare il doppiaggio italiano è il nostro amico Antonio Viola, che ha chiamato un gruppo incredibile di doppiatori nostrani – tutte voci notissime – per dare al filmato un sapore decisamente “hollywoodiano”, visto che molti dei doppiatori chiamati sono noti per prestare la voce anche a stelle del cinema americano.
Il tutto è dedicato al compianto Elio Pandolfi, la prima voce italiana del Dracula di Lugosi fra i tanti suoi ruoli, Nume tutelare che accompagna tutta l’iniziativa.
Mi piace segnalare questa operazione “amatoriale” – nel senso che non è autorizzata da grandi case, perché poi le voci sono tutte di grandi professionisti – nella speranza che il prossimo lavoro di Antonio sia… un qualche film marziale inedito!
Troveranno mai pace i capelli di Michelle? (da Black Day Blue Night)
Nel 1995 in cui Michelle Forbes appare in filmucoli sempre più infinitesimali e invisibili ad occhio nudo – come The Chosen One (aprile), poi un altro thriller ambientato in un’auto che sfreccia nel deserto come Black Day Blue Night (ottobre) e Just Looking (?) – intanto Ro Laren continua la sua ricca vita nei romanzi di “Star Trek: The Next Generation”.
The Romulan Stratagem
Nel maggio 1995 Robert Greenberger presenta in libreria The Romulan Stratagem (TNG 35) dove rispolvera due personaggi femminili che nel tempo sono scesi dall’Enterprise-D.
Una nota ci informa che il romanzo si svolge diversi mesi dopo l’episodio Face of the Enemy (TNG 6×14, 6 febbraio 1993), quello in cui Deanne Troi si risveglia… romulana! Picard si reca su un pianeta al confine fra Impero Klingon e Impero Romulano e cerca di convincerlo ad entrare nella Federazione, mentre gli ambasciatori dei citati imperi cercano di fare altrettanto. Chi riuscirà ad annettersi il pianeta?
«Guardiamarina, cosa dobbiamo fare con lei?»
Mentre si dipana la trama principale, col solito Picard che fa tutto da solo, la trama secondaria vede la nostra Ro Laren ancora semplice guardiamarina, essendo la vicenda ambientata prima della sua “promozione” della settima stagione.
«Da quando era entrata a far parte dell’equipaggio, quasi due anni prima, lei sapeva che il suo carattere indipendente l’avrebbe portata a scontrarsi in continuazione con i suoi superiori.»
Dopo l’ennesimo rimbrotto di Riker a cui lei risponde per le rime, Ro si vede assegnare un incarico che assomiglia parecchio ad una punizione spietata: visto che ci sono dei civili a bordo dell’Enterprise-D… il guardiamarina farà loro da guida turistica! Poveri civili, perché punirli in questo modo?
Il romanzo qui si divide fra il serio Picard che affronta scottanti questioni politiche e la seccatissima Ro che deve scarrozzare dei civili spiegando loro le varie sezioni della nave, ovviamente con modi bruschi e sbrigativi. Anche così però il suo naturale fascino bajoriano colpisce nel segno: il figlio di uno dei civili si innamora di lei!
«Sono stata assegnata alla famiglia Kelly perché si acclimatasse a bordo, e il loro figlio adolescente mi ha trovato… desiderabile.»
Ro è stata forgiata da mille battaglie, ma l’amore di un adolescente è una prova che supera le sue forze: trovare suoi regalini in cabina significa che bisogna correre velocemente ai ripari, chiedendo consiglio alle altre donne della nave.
La bravura del romanziere non sta solo nel seguire due binari diversi di narrazione – con Riker che sghignazza quando scopre i problemi di Ro – ma nel farli poi convergere: la soluzione che Ro troverà per allontanare il ragazzino darà a Picard l’idea per risolvere i suoi problemi diplomatici, noiosissimi da leggere e che ho già dimenticato.
Per finire, è curioso come l’universo espanso abbia sin da subito accolto Ro Laren con favore mentre Sela abbia raccolto solo tanta indifferenza. Forse perché il personaggio è troppo “strano”, sin dalla sua nascita in 4×26 (1991) gli autori non si sono impegnati molto a spiegare perché Tasha Yar ora è diventata romulana, con idee buttate là prive di spessore. Se le soap opera ci hanno insegnato qualcosa è che quando i personaggi muoiono e poi risorgono, non c’è bisogno di inventarsi spiegazioni strane, riappaiono e basta. Come ha fatto Michelle Forbes quando in “Sentieri” è morta e riapparsa. Senza fingere di essere romulana!
Bastava una falla nel continuum spazio-temporale per far tornare Tasha Yar da un universo parallelo, e a posto così. Magari allora avremmo più romanzi su di lei, invece che un paio di titoli sparuti.
Intermezzo
La rivista “TV Zone” n. 69 (agosto 1995) pubblicizza l’evento “Cult TV 1995”, una sorta di convention di fantascienza televisiva con proiezioni, anticipazioni e sopratutto ospiti di riguardo: per esempio verrà ospite Chris “X-Files” Carter e «a “Doctor” (but Who?)».
Produttori, registi, sceneggiatori, tanti sono gli invitati… ma il posto d’onore spetta a Michelle Forbes, addirittura messa per prima in lista, prima ancora di Chris Carter!
The Last Stand
Tocca stavolta a Brad Ferguson citare la nostra guardiamarina preferita, nel romanzo The Last Stand (TNG 37, ottobre 1995).
Picard scopre un pianeta con una civiltà vicina a raggiungere la velocità warp, quindi un grado avanzato di tecnologia, ma scopre anche una razza aliena vuole invadere e conquistare il pianeta, con miliardi di vittime.
Purtroppo la nostra Ro Laren è parte integrante e attiva dell’equipaggio ma… il romanziere sembra averla inserita senza avere idea di chi sia. È come se la Pocket Books gli avesse passato la lista dei nomi da poter utilizzare e Ferguson avesse eseguito senza ricordarsi di chi fosse ’sta Ro Laren.
Qui la guardiamarina fa la guardiamarina, esegue alla perfezione ogni ordine che le viene dato dai suoi superiori, parte per la missione sotto copertura sul pianeta con Data, analizza la situazione, viene ferita, verrà salvata… e tutto senza dire una sola parola fuori posto, senza un commento di qualsiasi genere. Ma che c’entra con il personaggio? Ro non è un membro qualsiasi dell’equipaggio, che esegue supinamente ogni ordine senza commentare, le è impossibile non essere sarcastica e ostile contro ogni ordine le arrivi.
Temo che Ferguson non seguisse le vicende televisive dei personaggi di cui scrive, limitandosi a trattarli tutti come anonimi “soldati spaziali”, quindi non vale la pena perdere ulteriore tempo con il romanzo.
«Se la presenza di un bambino dà all’effetto un altro giro di vite, che direste di due bambini?»
Henry James, Giro di vite (1898)
Come detto più volte, Giro di vite (1898) di Henry James è un testo amatissimo dagli anglofoni, non so bene perché, quindi ha conosciuto riduzioni televisive senza sosta. Al contrario di altri testi famosi, però, questo di James ha la curiosa particolarità di essere ripetuto sempre identico: nelle più di trenta versioni filmiche, in giro per il mondo, è davvero difficile scorgere sprazzi di personalità dell’autore di turno, è come se ci fosse una regola non scritta per cui Giro di vite debba essere ripetuto identico, scena per scena. Che i vari sceneggiatori abbiano paura del fantasma di Quint e cerchino di non irritarlo?
Negli anni Novanta la TV va ghiottissima di viti girate, e mi piace citare qualche versione particolare.
The Haunting of Helen Walker
La particolarità di questa ennesima versione-fotocopia del testo jamesiano, il cui unico “guizzo artistico” è il cambio di nome della protagonista, ha la particolarità di essere diretto da Tom McLoughlin, un nome davvero difficile da associare a una delicata storia di fantasmi ottocentesca.
Regista, sceneggiatore e cantante losangelino, Tom ha il cuore al posto giusto: cioè… nelle mani di uno squartatore!
Ha infatti iniziato la carriera scrivendo e dirigendo Venerdì 13: parte VI – Jason vive (1986), passando a dirigere il secondo episodio di “Freddy’s Nightmares” (1988) per poi sfornare ben quattro episodi di “Venerdì 13” (1989), la serie senza Jason. Dirigere A volte ritornano (1991) tratto da un racconto di Stephen King chiude la magica carriera horror di Tom, che poi passerà al lato romantico della TV, dove si lavora molto di più. Questa replica jamesiana è in pratica il suo addio al genere fantastico.
Trasmesso in patria americana il 3 dicembre 1955, credo che The Haunting of Helen Walker sia inedito in Italia. Il che è curioso, perché Tom McLoughlin ha girato ben tre film con protagonista Valerie Bertinelli, ma solo due sono arrivati (poco e male) sui nostri schermi. Non so come mai Giro di vite stia antipatico ai distributori italiani.
L’unico momento degno di nota di questa versione
Lo sceneggiatore Hugh Whitemore cambia un po’ di nomi ma poi si limita a ricopiare riga per riga il testo jamesiano, evitando così di rendere interessante la visione. L’unica concessione a un minimo di personalità arriva quando vediamo un “ricordo” del passato con Quint e Jessel che invitano nella propria camera Miles e Flora, lasciando intuire le nefandezze che insegneranno ai due ragazzini. Una scena sicuramente più ardita rispetto alle versioni precedenti, anche se pur sempre castissima.
Presence of Mind
Un tizio di passaggio, Antoni Aloy, dirige un’altra fotocopia dal nome diverso ma stavolta almeno c’è qualche nome importante nel cast.
Anche se sei famosissimo, le comparsate in filmetti ti toccano sempre
Con Presence of Mind, presentato in giro per festival dal 1999, la nostra Bly House viene trasportata a Mallorca (Spagna) e il gelido zio disinteressato ha la faccia di Harvey Keitel. La solita istitutrice (Sadie Frost) raggiunge la casa e conosce la solita signora Grose, che qui però si chiama Mado Remei. E ha il volto di Lauren Bacall.
Me la ricordavo sempre in bianco e nero, la Bacall
Sarà l’ambientazione latina, saranno le maglie della censura spagnola più larghe, saranno i tempi che cambiano, sta di fatto che finalmente, a cento anni dall’uscita del testo originale, finalmente si può accennare più dichiaratamente alla sessualità che pervade Miles e Flora, “regalo” del tempo passato con i viziosi Quint e Jessel.
Ah, se queste mura potessero parlare… direbbero “Per fortuna non siamo il pavimento”
Miles qui sembra molto più grande dei tredici anni che aveva l’attore Nilo Zimmerman all’epoca, ma forse è un giudizio dato dalla continua lascivia che traspare da come guarda Jennifer e da come trasuda malizia. Le lunghe e inutili scene dove la protagonista gira per casa sentendo voci qui sono sostituite da lunghi sguardi con Miles e situazioni “calde” in cui l’istitutrice cerca di mantenere il controllo, quando è chiaro che sia sempre Miles ad averlo.
Solo dopo la morte finale del giovane la donna cederà a baciarlo, come se finalmente gli avesse ceduto. Per il resto è la solita resa noiosa del testo diversamente frizzante di James.
The Turn of the Screw
Tocca infine al regista televisivo Ben Bolt dirigere una sceneggiatura di Nick Dear, che aveva esordito con The Gambler (1997) da Dostoevskij quindi era lanciato nel rifacimento dei classici.
The Turn of the Screw viene trasmesso in Gran Bretagna il 26 dicembre 1999 – una tipica visione natalizia! – e credo sia inedito in Italia.
Stavolta c’è solo un attore famoso, nella solita comparsata dello zio anaffettivo, e trattandosi di produzione britannica non poteva essere che Colin Firth.
Stavolta ogni più minimo guizzo di interpretazione del testo viene annullato, ogni vago accenno alla sessualità – che non poteva certo essere esplicita nel 1898 ma potrebbe nel 1999 – è totalmente assente, perciò è l’ennesima fotocopia totalmente priva di qualsiasi interesse. Dal Paese che da quattro secoli ripete le stesse identiche opere di Shakespeare regalando a ognuna un carattere particolare mi aspettavo meno supina ripetizione da ciclostilo.
A parte avere un’espressione sempre stupita e allibita sul volto, la solita istitutrice (Jodhi May) non fa altro a Bly House che ripetere il copione a pappagallo, con al massimo Miles e Flora che fanno le faccette infide, niente di più.
È chiaro che questo spunto, a cent’anni dalla nascita, abbia un gran bisogno di una bella scossa.
Gli anonimi benefattori che si nascondono nei meandri degli uffici Mediaset continuano a farci regali, usando i palinsesti notturni per liberare secchiate di film murati vivi da decenni negli archivi segreti dell’emittente.
Ricevuto il visto della censura italiana il 2 settembre 1976, con divieto ai minori di 18 anni, Mandinga dell’italiana SEFI esce in sala già dall’11 dicembre successivo, rimanendoci per due o tre anni.
Nel 1982 conosce una breve vita in piccoli canali televisivi: ignoto all’home video, è rimasto inedito per quarant’anni anni prima che Rete4 lo riesumasse in un’incredibile qualità HD nella notte del 23 maggio 2023.
Un film tornato alla luce dopo quarant’anni, addirittura in HD!
Il nome “Mandingo”, diventato poi anche aggettivo, è un altro nome dell’etnia Malinke dell’Africa occidentale, mi spiega il Dizionario Treccani, e sfogliando gli archivi del quotidiano “La Stampa” è chiaro nelle metà degli anni Sessanta – dopo che Feltrinelli nel 1965 presenta il romanzo Mandingo di Kyle Onstott, autore morto il successivo 1966 – il termine è esploso con il suo carico di esotismo.
L’arrivo del relativo film di Richard Fleischer nelle nostre sale, nel luglio del 1975, con seguito Drum l’ultimo mandingo l’anno successivo, ha spinto casupole italiane a sfruttare il tema fondendolo con uno stile che in Italia ha funzionato per decenni: la copula che spopola!
Tipica ambientazione del sud degli Stati Uniti…
Ci troviamo nella Louisiana ottocentesca che assomiglia parecchio alla Pineta di Ostia, con campi coltivati che fanno pensare più a Maccarese che al sud degli Stati Uniti. Qui troviamo un padrone tanto cattivo quanto baffuto, Richard Hunter (Serafino Profumo), che stanco di una moglie troppo bacchettona si è preso per compagna la di lei cugina, Rhonda (Paola D’Egidio).
I dialoghi fra i due sono lunghissimi, sembra un libro stampato, perché la ben poco prolifica sceneggiatrice Tecla Romanelli sin da subito deve riassumerci un sacco di informazioni non sempre utili, e visto che gli attori sono totalmente incapaci e si limitano a rimanere fermi con una paresi facciali, il senso di straniamento che si prova a sentire le belle voci dei doppiatori sopra a dei manichini neanche somiglianti ad esseri umani è forte e intenso.
Un’espressione fissa e vacua per l’intero film: però la doppiatrice lavora bene
Se Hunter era stufo di una moglie che criticasse i suoi grandi appetiti, con Rhonda è cascato bene: la sua nuova compagna adora guardare Hunter che frusta gli schiavi neri e poi si ripassa le schiave. Anzi, ne approfitta subito per uniformarsi alle consuetudini della casa e si pappa tutti i neri più prestanti della piantagione, disprezzando le schiave che “se la tirano”, tipo la mandinga del gruppo.
Questa è la mandinga del titolo, totalmente inutile nella vicenda
Malgrado dia il titolo al film, la mandinga esce immediatamente di scena dopo neanche due minuti, facendo quindi capire che è tutta una truffa: il regista Mario Pinzauti aveva appena diretto Emmanuelle bianca e nera (1976) ed è chiaro che abbia avuto mandato dai produttori di limitarsi a riprendere copule inter-razziali. Dall’anno successivo ha mollato il mestiere di regista, ma non abbiamo perso chissà che eccellenza nostrana.
da “La Stampa” (11 settembre 1976)
Torna alla piantagione il figlio del proprietario, Clarence (Antonio Gismondo), che ha studiato all’estero, pronto a imparare il mestiere dal padre, e quando Rhonda capisce che non essendo legalmente sposata con Hunter non beccherà un centesimo di eredità, segue subito il gran consiglio: molla il padre e cucca il figlio. Cattivo sangue non mente, così guarda caso pure il giovane Clarence ha piacere a spupazzarsi gli schiavi inermi, passando giornate viziose con la matrigna in compagnia di schiavi di ambo i sessi. In pratica non si fa altro, nella piantagione di Ostia.
Però bisogna salvare le apparenze e soprattutto portare avanti il nome di famiglia, quindi il giovane sposa la coetanea figlia del pastore e sembra che la pubblica virtù sia salva, dopo i vizi privati, ma poi entra in ballo la genetica deviata e la narrazione monca: d’un tratto la sceneggiatura impazzisce e, alla disperata ricerca di una qualsiasi trama che porti alla conclusione una vicenda senza senso, comincia a sparare colpi di scena a casaccio. Figli bianchi nati da neri, figli neri nati da bianchi, incesto, tradimento, salti temporali assurdi e tutto finisce in pernacchia. Una tragedia shakespeariana eseguita a suon di peti e pernacchie.
Capisco l’esigenza per le minuscole casupole nostrane di sfornare filmetti pruriginosi con cui fare concorrenza ai tanti prodotti similari che affollavano le sale dell’epoca, ma se chiaramente si è scelto di abolire la sceneggiatura in favore di copule (peraltro solo accennate) perché poi fingere nel finale che ne esista una? Perché cominciare a sparare colpi di scena a casaccio? Il finale era già scritto: stanchi dei soprusi, gli schiavi della piantagione di Ostia si ribellano e maciullano i padroni. Fine del film, pulito e conciso. Invece affidarsi ad una genetica da scienziato pazzo mi sembra solo un peggiorare la situazione.
Spero che una qualche istituzione si sia presa cura degli attori coinvolti nel film, chiaramente incapaci di intendere e di volere così come ignari di dove si trovino: io ci vedo un chiaro caso di circonvenzione di attore, o sedicente tale. Nessuno dei protagonisti è in grado di avere una qualsiasi espressione sul volto perché questo è un “audio-film”: i doppiatori fanno tutto mentre gli attori stanno lì, pupazzi inanimati ignari di sé.
Lo stesso sono contento che gli ignoti benefattori che si aggirano per gli archivi segreti di Mediaset continuino a tirar fuori chicche murate vive da decenni: bravi ragazzi, che la Z sia con voi!
Non amo la frase giustificativa “i film non sono documentari”, soprattutto riguardo ai film che invece si presentano proprio come documentari (soprattutto biografici), nascondendosi dietro quella frase per rispondere alle accuse (giuste) di falso storico. Un film onesto dovrebbe invece fare propria quella frase, partire cioè da una base storica per poi fare l’unica cosa che vogliamo da un film: una narrazione. Non importa se sia vera, importa che segua le regole di una narrazione, quindi dev’esserci una storia da raccontare, vera o falsa che sia.
Come abbiamo visto, Christina Ricci nel 2014 si è lanciata in un film televisivo che si prefigge di essere un documentario sui fatti di sangue di casa Borden nel 1892, quindi è falso come tutti i film ispirati a veri eventi ed è privo di narrazione, visto che non c’è altra storia da raccontare se non la mera esposizione di eventi, debitamente rimaneggiati (cioè falsi). Un’operazione completamente diversa è stata portata avanti con questo Lizzie, presentato nel 2018 al Sundance Film Festival e che io sappia ancora inedito in Italia, malgrado abbia ben due attrici famose protagoniste. Misteri della distribuzione italiana.
Il regista televisivo Craig William Macneill e lo sceneggiatore Bryce Kass sono nomi troppo di basso livello (e poco prolifici) per non credere a quanto l’attrice Chloë Sevigny racconta nelle interviste: è lei che ha voluto il film, l’ha “covato” e alla fine l’ha prodotto, chiamando personalmente Kristen Stewart come co-protagonista perché non vedeva nessun’altra in quel ruolo. Non ho capito come mai la nota attrice abbia accettato un film così minuscolo, abituata com’è alle grandi case (e immagino ai grandi ingaggi), ma magari anche lei ha creduto nel progetto.
L’idea di Sevigny è quella di usare un notissimo fatto di cronaca, conosciuto da ogni singolo americano, solamente come base per costruirci una narrazione, cioè quello che tutti gli autori dovrebbero fare, invece di sfornare documentari falsi per poi difendersi con “i film non sono documentari”. Questo Lizzie non è un documentario, è un film e quindi ha una narrazione, una storia da raccontare e un modo per farlo. Chiedersi se sia una storia vera ha senso quanto chiedersi se davvero gli agenti segreti fanno quello che fa Tom Cruise al cinema.
Una donna del suo tempo. Non il migliore dei tempi
Andrew Borden (Jamey Sheridan) è un uomo del suo tempo. È un ricco imprenditore di Fall River (Massachusetts) e come vuole la cultura in cui è cresciuto si comporta da re in casa propria, esigendo obbedienza e morigeratezza dalle figlie Emma (Kim Dickens) e Lizzie (Chloë Sevigny), le quali – come vuole la stessa cultura dell’epoca – sono sottomesse anche alla matrigna Abby (Fiona Shaw). Questo significa che a casa Borden non regna l’allegria, tanto più che Emma e Lizzie sono donne non più giovani ma ancora nubili, quindi si aggiunge vergogna alla loro condizione.
In questa piramide di umiliazione e malumore si arriva alla base con l’entrata in scena della nuova cameriera, Bridget, che però le regole della casa vogliono si chiami Maggie (Kristen Stewart): non ho capito il motivo del cambio di nome.
E un giorno, a peggiorare tutto, arrivò Maggie
Lizzie stabilisce subito un rapporto di empatia con Maggie, forse perché fra “ultimi” ci si intende. Se infatti Lizzie è trattata male ma rimane la figlia del padrone di casa, per di più benestante, Maggie è poco più di un elettrodomestico, e come se non bastasse il re della casa le riserva delle attenzioni sessuali non gradite. Di nuovo, non è un bel vivere a casa Borden.
Se le ricostruzioni storiche e il film (e serie TV) con la Ricci hanno sbrigativamente risolto il “movente” di Lizzie con un semplice «È ’na matta», essendo questo l’unico approfondimento del personaggio, Sevigny va dove nessuno è mai stato prima d’ora: cerca di spiegarci cosa possa aver spinto una donna benestante del 1892 a maciullare i propri genitori. E direi che ci è riuscita bene, la sorte di mamma e papà Borden sembra addirittura troppo “leggera”, rispetto alla mole di oppressivi soprusi psicologici che la figlia ha dovuto subire nella sua vita. Curiosamente sembra aver vissuto molto meglio la sorella Emma (Kim Dickens), che però qui è solo una comparsa.
Quanta simpatia a casa Borden…
L’accenno buttato lì a caso che Lizzie fosse epilettica sembra lasciar intuire che il suo intero corpo stesse reagendo alle regole civili imposte dalla società in cui viveva, sebbene – è sempre giusto ricordarlo – quelle regole non possono essere giudicate con gli occhi di oggi, visto poi che tutte le donne di Fall River subivano lo stesso trattamento senza diventare assassine, ma è chiaro che sia questa la narrazione del film: la società patriarcale oppressiva può generare mostri. Si può essere d’accordo o meno, comunque è una narrazione, non un semplice elenco di eventi privi di storia.
Lizzie e la cameriera Bridget-Maggie si ritrovano a subire angherie dal padrone di casa, e le due donne scoprono di nutrire sentimenti non certo in linea con l’etica morale dell’epoca. Sevigny raccoglie quei particolari che altre ricostruzioni hanno ignorato, cioè l’interesse non certo amichevole di Lizzie per un’attrice locale, con cui ha passato una settimana di passione, difficilmente platonica. Questa sfumatura della biografia della donna viene qui usata per trasformare le due protagoniste in novelle diaboliques. A un certo punto la sensazione è che questo Lizzie si rifaccia più ai film tratti dal romanzo di Pierre Boileau e Thomas Narcejac che alle cronache della nota assassina.
Considerare Andrew Borden un “padre e padrone” e tutta la mitologia che il patriarcato si porta dietro è davvero difficile, è un uomo ritratto incapace e debole quindi a un certo punto risulta difficile credere come un carattere forte e indomito come quello di Lizzie si sia fatto sottomettere da un omino così insignificante. Per non parlare di zio Borden, ancora più incapace, che a un certo punto dovrebbe raddoppiare il “pericolo maschile” che incombe sulla donna. E quale dovrebbe essere l’alternativa, il matriarcato sotto la aspra Abby Borden? Non lo auguro a nessuno.
Non è chiaro dove vada a parare tutta l’operazione, o meglio è chiaro che sia una denuncia dell’oppressione maschile fine a se stessa ma non è chiaro se abbia anche qualcosa da proporre, comunque di sicuro riesce a creare un turbine emotivo che esplode nel finale liberatorio, dove finalmente Lizzie può lasciar andare tutto l’odio che ha sempre represso dentro di sé. La vediamo rigida e austera per tutta la vicenda, mentre nel finale libera l’animale che è in lei, stanca dei soprusi e delle umiliazioni.
Prima o poi tutta queste repressione esploderà nel modo peggiore
Per gli americani Lizzie è colpevole, non si scappa, ma ormai l’abbiamo accettato. Inaccettabile invece è la scritta finale, perché la storia ha una narrazione che non può dilungarsi coprendo il processo quindi un cartello ci informa che Lizzie è stata giudicata innocente perché la giuria maschile non poteva concepire che un tale crimine fosse commesso da una donna. È l’unico momento in mala fede del film, dispiace ma per fortuna è breve.
Lizzie è stata prosciolta dalle accuse perché non esiste un solo straccio di prova della sua colpevolezza, è stato un processo basato sul nulla, ma forse questo non corrispondeva con la narrazione di questo film: il piacere maligno di accusare di maschilismo paternalista la giuria valeva il prezzo di chiudere gli occhi sulla possibilità dell’innocenza di Lizzie, anche perché questa avrebbe mandato all’aria tutto il film.
Merita di essere citata poi una ghiotta curiosità. Qui viene spiegato che secondo le leggi del Massachusetts nel caso di una coppia deceduta l’eredità andrebbe a chi… è morto per ultimo! Se Andrew Borden fosse stato ucciso per primo e sua moglie Abby per seconda, in quel caso l’asse ereditario sarebbe andato alla famiglia di Abby che, non avendo legami di sangue con le sorelle Borden, le avrebbe lasciate a secco. Invece, guarda caso, è stata uccisa prima Abby e poi Andrew, così da essere sicuri che l’eredità rimanesse alla discendenza Borden. Curioso che i saggi storici non citino questo fatto, spero non sia un’invenzione del film. Che non è un documentario!
Sottigliezze a parte, questo Lizzie rimane un ottimo film, minuscolo ma ben curato, con un buon ritmo e la prova che non c’è bisogno di fare falsi documentari, basta raccontare una storia, vera o falsa che sia, per avere un buon prodotto.
Potrei aver visto la prima visione di italia1 del 1984, ma di sicuro non è sfuggita né a me né al nuovo videoregistratore entrato in casa la messa in onda di Italia1 di domenica 21 dicembre 1986, quando Scontro di titani (1981) ha invaso il mio mondo e mi ha fatto innamorare dei mostri. E del loro Re: Ray Harryhausen.
Di lì a poco iniziai a comprare regolarmente la rivista “CIAK” e grazie a questa ho scoperto gli altri titoli che vantavano i “mostri del maestro”, tutti film molto difficili da recuperare, persi tra le maglie di una distribuzione italiana pessima, ma pian piano, con la pazienza degli anni e tenendo sempre d’occhio la guida TV, almeno alcuni titoli famosi sono riuscito a recuperali quand’ero ancora adolescente. Quando cioè Ray lo si amava con forza e violenza.
Nel 1989 è arrivata in casa etrusca la prima videocamera, e potete scommettere Perseo con tutto Pegaso che ho iniziato a replicare l’arte di Harryhausen, che “CIAK” chiamava «stop-motion» e che poi ho scoperto avere persino un nome italiano, animazione a passo uno. Guarda caso – sebbene il caso non esista – nello stesso periodo la Lego Technic distribuisce un nuovo personaggio: non c’è più solo l’omino Lego famoso, quello tappetto, no, nasce (e muore subito dopo) un omino Lego alto e snodabile. Assolutamente perfetto per il passo uno.
Il materiale con cui il vostro Etrusco creava i primi “cartoni alla Ray Harryhausen”
Ero sempre l’ultimo della classe, la scuola andava malissimo perché nel mio cervello, e nel mio cuore, non c’era spazio se non per lo studio della tecnica giusta per creare cortometraggi animati a passo uno, muovendo con cura i nuovi omini Lego in modo da creare un movimento fluido. Ray è responsabile della mia pessima carriera scolastica ma anche della mia follia visionaria.
Un giorno forse le Animazioni Etrusche usciranno dagli archivi segreti…
Ray Harryhausen è sempre con me, anche se trovare in italiano i suoi film è impresa molto più ardua che creare cortometraggi animati a passo uno. Visto che questo 2023 ricorrono i dieci anni della sua scomparsa – ora sta insegnando agli angeli ad animare mostri! – mi sembra giusto iniziare un ciclo commemorativo, anche perché ci saranno vari anniversari a suo nome, quest’anno.
Come dicevo, questo è l’anno in cui Ray sforna anniversari a manetta. Per esempio, era il 1933 quando tredicenne ha visto al cinema King Kong (1933) e gli ha fatto lo stesso effetto che Scontro di titani ha fatto a me: ora corro a casa e rifaccio uguale quelle animazioni!
Sono dunque novant’anni da quando Ray ha ricevuto il “dono dei mostri”, e a rivelarlo è lui stesso in un’intervista del 1973, che quindi compie cinquant’anni: l’ho detto che qui si festeggia a go-go! La lunga e ghiotta intervista di Ray a “Castle of Frankenstein” ve la presenterò tradotta in italiano a fine ciclo, ma intanto ne userò le informazioni relative ai singoli film.
Passata l’infanzia a noleggiare cineprese per riprendere animali giocattolo, Ray cresce e incontra Willis O’Brien (qui in alto nella foto, sul set de Il re dell’Africa), che magari non sarà l’inventore del passo uno ma di certo ne è il profeta. O’Bie (come lo chiama amichevolmente Ray) incoraggia il giovane e gli fa da mentore, così che dopo un po’ di gavetta sotto George Pal – altro mostro sacro del settore fantastico – il nostro Harryhausen si ritrova a 29 anni a partecipare a Il re dell’Africa (1949), un “kingkonghide” tanto per chiudere il cerchio. Il suo nome non è attestato nei titoli di coda, non conta niente nel settore, ma chi se ne frega? Sta cavalcando con il Re… in attesa di diventare Re lui stesso.
Sicuramente troverete biografia più particolareggiate in giro, ma ho scelto queste brevi informazioni perché è Ray stesso a darle, nella citata intervista del 1973: non necessariamente sono vere, ma sono quelle che lui vorrebbe si considerassero “ufficiali”.
È il momento che il Ray entri nei titoli di testa!
Quando finalmente Ray ha la possibilità di lavorare in solitaria, senza cioè lo sguardo di O’Brien su di sé, scopre che il suo mestiere non consiste solo nello stare in uno stanzino a muovere mostri davanti a un obiettivo: deve fare tutto quel che c’è da fare! I film con i mostri si fanno perché sono di moda ma non godono di alcuna stima nell’ambiente, il che è un bene, perché la “scala gerarchica” salta: persino il giovane addetto agli effetti speciali può contribuire alla sceneggiatura.
Chiamato perché un produttore aveva un copione un po’ scarsino, Ray propone qualche idea e poi la casa si compra i diritti di un racconto appena uscito sul “The Saturday Evening Post” (23 giugno 1951), una storia brevissima ma dal titolo affascinante: The Beast from 20,000 Fathoms. L’autore, un certo Ray Bradbury, si vede il racconto comprato… solo per il titolo! La trama a malapena viene accennata nel film finito.
«È impossibile!» esclamai.
«No, Johnny, noi siamo impossibili. È com’era dieci milioni di anni fa. Non è cambiato. Siamo noi e la terra a essere cambiati, a essere diventati impossibili. Noi!»
Ray Bradbury, La sirena da nebbia,
traduzione di Anna Ravano (Mondadori 2013)
Il racconto – ristampato poi come The Fog Horn e arrivato in Italia nell’ottobre 1964 dell’antologia Le auree mele del sole (La Tribuna): lo trovate nell’Autoantologia (Oscar Mondadori) – racconta di un guardiano del faro che informa il suo nuovo giovane collega di uno strano fenomeno: ogni anno la sirena anti-nebbia sembra attirare l’attenzione… di qualcosa. L’opinione del guardiano è che dopo milioni di anni di sonno una creatura marina, un vero dinosauro di enormi dimensioni, si sia svegliato e riconosca nella sirena una sorta di richiamo, ma è confuso perché il mondo che lui conosceva ormai non esiste più.
«Un urlo arrivò attraverso milioni d’anni d’acqua e di nebbia. Un urlo così solitario e disperato che mi riverberò nel cuore e nella mente. Il mostro urlò verso la torre. La Sirena da Nebbia ululò. Il mostro ruggì di nuovo. La Sirena da Nebbia ululò. Il mostro aprì la grande bocca piena di denti, e il suono che ne uscì fu lo stesso suono della Sirena da Nebbia. Solo e vasto e lontano. Il suono dell’isolamento, di un mare cieco, di una notte fredda, della distanza. Questo fu il suono.»
Come detto, del racconto non rimane nulla su schermo, se non una breve scena con il dinosauro che distrugge un faro, ciò che conta è il titolo di grande effetto.
L’unico vago collegamento con il racconto di Bradbury
Ricevuto il visto italiano l’8 settembre 1953, la Warner Bros lo porta nelle nostre sale il 24 ottobre successivo con il titolo Il risveglio del dinosauro, anticipandolo come «il più sensazionale film del secolo».
da “La Stampa” del 24 ottobre 1953
Arriva prestissimo in TV, già nel settembre 1965 fa parte di un ciclo di sei film di fantascienza trasmessi dal Secondo canale (Rai2) in prima serata: negli anni Ottanta apparirà su qualche minuscolo canale locale, ma essere targato Warner Bros significa essere murato vivo nei suoi archivi, in Italia. Quando finalmente la casa malefica molla la presa, il film ricompare: in DVD 30 Holing nel 2012 e in DVD A&R Productions nel 2021. Da quest’ultima edizione sono tratte le schermate di questa pagina.
Usando uno spunto che definire inflazionato è fargli un complimento, fra i ghiacci artici viene risvegliato qualcosa che lì dormiva da milioni di anni: chi l’avrebbe mai detto? Risvegliato da un’esplosione, un dinosauro inizia a viaggiare sott’acqua per risalire guarda caso a New York City: ammazza che mira!
Tre quarti di film – diretto dall’esordiente Eugène Lourié, che nella sua brevissima carriera farà quasi solo film di mostri – vanno via appresso al protagonista Tom Nesbitt (Paul Christian con la voce italiana di Gualtiero “Cary Grant” De Angelis: grazie Vasquez!) che cerca di convincere prima la comunità scientifica poi quella militare che fra i ghiacci ha visto un mostrone gigantone, il quale ora potrebbe aggredire la civiltà umana. Perché ovviamente New York è il simbolo della civiltà umana…
Ma i dinosauri risvegliati sognano di andare a New York?
La scienza si convince velocemente che si tratti di un Rhedosaurus, cancellato dal doppiaggio italiano. Il fatto che vent’anni dopo il film un intervistatore chieda conferma ad Harryhausen che si tratti di una vera specie di dinosauro, sentendosi spiegare che invece se lo sono inventato per il film, ci fa capire quanto l’opera di Ray abbia forgiato l’immaginario collettivo.
E Ray entra nella storia del cinema
Nell’ultimo quarto di film arriva il mostro e distrugge tutto, e purtroppo le digitalizzazioni moderne spezzano la magia: posso testimoniare come sul televisore analogico di casa in questi film di mostri sembrassero fuse le sequenze in cui gli umani scappano da un panno su cui è proiettato il mostro, mentre invece in HD ogni magia è spezzata.
Chi potrà mai salvare New York e quindi l’umanità intera? Chi saprà da solo sconfiggere il più grande e dinosauro mai apparso sulla Terra? Ovvio: Lee Van Cleef!
Ehi, amico: c’è Lee Van Cleef… hai chiuso!
Armato di carabina M1 della Seconda guerra mondiale, con montato un lanciagranate M8 – tanto per dire, è il fucile che nello stesso periodo è imbracciato da Richard Widmark e Humphrey Bogart, quindi è roba seria – il cecchino interpretato da Van Cleef (con la voce italiana di Renato “Walter Matthau” Turri, grazie Vasquez!) con un colpo solo infila un «granata radioattiva» nel corpo del mostro e fine dei giochi. Dio perdona, Lee Van Cleef no!
Mi spiace, Lee, non abbiamo trovato un Winchester…
L’unica differenza fra questo filmetto e i tanti similari prodotti negli anni successivi è che qui almeno la creatura ha un’animazione come Ray comanda, invece di essere un pupazzone o un attore mascherato: temo che il film meriti di essere visto solo per gustarsi la lunga lavorazione per animare un dinosauro senza farlo sembrare un giocattolo, qualcosa in cui Ray… è Re!
Il mostro dei mari
Cambia la casa, da Warner Bros si passa alla Columbia Pictures, ma il succo rimane lo stesso: It Came from Beneath the Sea nel giugno del 1955 ripete identica la formula del precedente titolo, c’è solo un polipone al posto del dinosauro.
da “La Stampa” del 24 agosto 1955
Ricevuto il visto italiano il 12 luglio 1955, arriva in sala dal 24 agosto successivo con il titolo Il mostro dei mari. Non ho trovato tracce di messe in onde televisive, ma la Columbia lo porta in VHS nel 1997. La stessa casa, diventata Sony Pictures, lo presenta in DVD dal maggio 2003.
Nel 2007 la stessa Sony tira fuori un ghiotto doppio DVD con anche la versione colorizzata del film mentre la Sinister Film lo presenta nel 2015, ristampato nel 2022 con la versione restaurata in HD.
Il comandante Mathews (Kenneth Tobey) guida un sottomarino che si incaglia contro qualcosa, analizzata la quale e dopo attenti studi da parte dei più esperti scienziati al mondo – cioè due tizi presi sotto casa – si scopre essere un frammento di tentacolo di polipo radioattivo, sicuramente frutto degli esperimenti nucleari americani al largo delle Filippine.
C’è qualcosa di strano nell’aria, stasera…
Di nuovo, nessuno ci crede poi il polipone si mangia una nave e tutti ci credono, non rimane che aspettare il suo arrivo in città, e questa volta è San Francisco.
I dinosauri vanno a New York, i polipi giganti a San Francisco
Nella citata intervista Harryhausen sottolinea come il Golden Gate Bridge fosse ancora relativamente “nuovo” (inaugurato nel 1937) e quando il consiglio cittadino ha letto il copione, con un polipo che lo distrugge, ha detto subito un bel “no” tondo tondo alla concessione dei permessi. Nessun problema, per chi è ricco di fantasia: infilata la cinepresa in un furgoncino del pane, si va a girare di nascosto sul ponte e al resto… ci pensa il polipone!
E mo’ ve lo rompo tutto, ’sto ponte, così vi imparate a non dare i permessi!
Grazie alla pessima distribuzione non avevo mai visto prima il film e non mi pare un’opera da ricordare, anche perché la maggior parte della trama verte sul protagonista che molesta sessualmente la donna di turno, stupendosi perché “le donne d’oggi” non sembrino gradire certi corteggiamenti d’altri tempi. La manciata di minuti finali col polipo che distrugge il Golden Gate mi pare un po’ pochino per salvare la baracca.
Il film però ci regala una curiosità. Per risparmiare sulla fatica di animare un polipo, Ray ha pensato di ridurgli un po’ il numero dei tentacoli – da otto a cinque – partendo dall’idea che tanto nessuno in sala si sarebbe messo a contarli, quindi sottostimando i fan. L’intervistatore del ’73 chiederà invece conto di questi cinque tentacoli, e Ray ammetterà la “furbata”, stupendosi che qualcuno se ne sia accorto.
Entrambi questi film sarebbero già dimenticati subito dopo la loro uscita, se non portassero impressi la mano di Re Ray, che andrà sempre migliorando nel suo lavoro, come vedremo nelle prossime settimane.
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