Savage Beach (1989) Hawaii squadra speciale 3


Non riesco a smettere, il cialtronesco Sidaris-verse mi attrae come un buco nero, roba che il Sole Nero di “Spazio: 1999” gli fa un baffo, ma in fondo io sono cresciuto con l’Italia1 dei tempi d’oro e qua siamo nel suo regno incontrastato.

Se infatti i titoli visti finora hanno conosciuto una distribuzione italiana in home video parallela a quella televisiva, stavolta non ho trovato alcuna traccia di VHS: Italia1 nell’agosto del 1995 si pappa un trittico di Sedaris in esclusiva, sparando titoli a casaccio in totale (casa delle) libertà.

Stando ad IMDB Svage Beach – quarto titolo della Saga delle Hawaii (titolo che mi sono inventato io, in mancanza d’altro) – esce in patria americana nell’ottobre 1989 mentre sarebbe arrivato in Italia nel 1991, non si sa né dove né come. Di sicuro Italia1 lo manda in onda in prima visione nella seconda serata del 10 agosto 1995… o forse del 24 agosto!

Il problema è che Italia1 quell’agosto 1995 per tre giovedì sera – 10, 17 e 24 agosto – manda in onda tre film ignoti di Sidaris che ribattezza Hawaii squadra speciale I, II e III: come identificare con precisione e sicurezza i tre titoli se i dati riportati dai giornali sono sparati a casaccio? Per esempio in due film è attestata la presenza di Bruce Penhall ed Erik Estrada, i quali però sono insieme solamente in un titolo. Gli anni di produzione sono messi a fantasia, le tramette pura invenzione: come fare per identificare questi tre film?

Non esiste dunque alcuna certezza che questo Savage Beach sia l’Hawaii squadra speciale 3 indicato da qualche solerte fan su IMDb, scritto con il numero arabo quindi già sbagliato di suo, visto che Italia1 ha usato i numeri romani.

Un film perfetto per Italia1, che però l’ha subito sepolto vivo in archivio

Da ballerine svestite di localini equivoci, le nostre eroine tornano agenti speciali delle Hawaii: Donna (Dona Speir) e Taryn (Hope Marie Carlton) tornano eroine d’azione dopo una parentesi pecoreccia, e fanno saltare in aria i criminali locali.

Basta poppe al vento, si torna a sparare ai cattivi

Quindi hanno messo da parte il loro passato da conigliette di Playboy e si dedicano al nuovo ruolo della donna forte al cinema? Be’… non esageriamo.

L’unica scena in cui vediamo le due ex conigliette nei loro passati “panni”

La sessione di tintarella quotidiana viene interrotta dall’arrivo di un messaggio di soccorso da una delle isole circostanti, dove il dottore di un ospedale da campo chiede aiuto per ricevere farmaci: soprassediamo su come il regista abbia costruito la scena, chiaramente invitando amici e parenti a fingere di essere dottori e pazienti.

Le nostre due eroine partono subito all’azione con il loro aereo ma non sanno che i cieli hawaiiani sono in burrasca, perché dopo decenni è uscita fuori la mappa di dove sarebbe sepolto un ricco tesoro nascosto dai giapponesi durante la Seconda guerra mondiale.

La “febbre dell’oro” fa attivare criminali americani a bordo di rombanti Kawasaki ZX-10 Ninja di quello stesso 1989…

La moto Ninja: il sogno proibito della mia adolescenza!

… fa attivare un diplomatico filippino, Martinez (Rodrigo Obregón), che chiede ufficialmente al Governo hawaiiano la restituzione di quel tesoro per “danni di guerra” al proprio Paese, ma soprattutto si attivano i giapponesi, che rivogliono il proprio oro. Oddio, “giapponesi” è un parolone, visto che uno di loro ha la faccia di James Lew.

Il giovane James Lew con la messa in piega

In realtà il perfido filippino Martinez vuole l’oro per sé così da sobillare una rivoluzione, e le cose si incasinano ancor di più quando i giapponesi sono fatti fuori e il loro posto viene preso da terroristi coi baffoni di Al Leong: è una caciara, ma almeno le facce sono quelle giuste.

Al Leong con un mitico floppy disk da 5 pollici: cosa volete di più?

Intanto le nostre Donna e Taryn hanno un guasto al loro aereo e atterrano bruscamente su un’isola deserta… che capiamo subito deserta non essere.

Chi sta spiando le nostre eroine discintamente vestite?

Come faranno le nostre eroine a sopravvivere su un’isola deserta? Nessun problema: prima fanno una merendina a base di cocco fresco poi con le pinne, il fucile e gli occhiali (manco fossero Edoardo Vianello) vanno a pesca.

Un momento… ma da dove arriva tutta quella roba? Dove le tenevano le mute? Ah, diaboliche agenti hawaiiane pronte a tutto! E i bambini che stanno morendo senza farmaci nell’isola accanto? Mi sa che se la pigliano in saccoccia…

Donne pronte ad ogni sfida!

Mentre le nostre due eroine si godono la vacanza, tra cocco e pesce fresco, intanto la secchiata di altri personaggi si affolla e fa cose troppo stupide per seguire, ciò che conta è che tutti i vari criminali che vogliono rubare l’oro dei giapponesi arrivano proprio sull’isola deserta di Donna e Taryn, che è l’isola meno deserta di tutto l’atollo.

Americani, filippini, cinesi che fingono di essere giapponesi, hawaiiani, ci sono tutti: mancherebbe solo il solito soldato giapponese che, ignaro della fine della guerra, ha vissuto su quell’isola sin dal ’45… e ce l’abbiamo, siòre e siòri.

Un attore giovane (Michael Mikasa) che interpreta un soldato che da cinquant’anni vive solo sull’isola: solo Andy Sidaris può spararle così grosse senza mai vergognarsi.

Ma i soldati giapponesi erano tutti cintura marrone di cazzate come Sidaris?

Il film è chiaramente un’altra stupidata alla Sidaris, anche se stavolta invece di scenette folli a volte slegate si tratta di una ambiziosissima super-trama da spy story d’altri tempi, e questo credo indichi come l’autore stesse cercando una propria cifra, mentre intanto mostra gente che spara a caso – sottolineo che tutti questi film hanno le stesse identiche armi, dotazione unica dei magazzini di Sidaris – e due protagoniste che mostrano le grazie a favor di camera, anche se stavolta niente nudi gratuiti di cui invece sciabordava il precedente titolo.

Questa saga cambia stile di titolo in titolo, è come se ogni anno Sidaris aggiustasse il tiro a seconda forse delle reazioni del pubblico, o magari semplicemente perché è un pessimo autore e spara a casaccio, sperando di beccare qualcosa. Con donnine svestite, splendidi paesaggi e caratteristi che sparano ci si azzecca sempre, nelle mitiche videoteche degli anni Ottanta.

Il film è puro nulla ma di nuovo è utilissimo per vedere come persino autori di grana grossa come Sidaris si rendevano conto in quegli ultimi Ottanta come le protagoniste femminili non potessero più essere ritratte come conigliette bensì come eroine d’azione (più o meno).

Sidaris cambierà ancora stile per il successivo filmaccio? Lo scopriremo la settimana prossima.

L.

P.S.
Il film lo trovate completo su YouTube, in ottima qualità ma solo in lingua inglese.

– Ultime donne toste:

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The Cell 2 (2009) La vedenza e la sentenza


Continuo a trovare deliziosi i “giovedì horror” di Italia 2, canale attento alla nostra costante fame di serie Z di qualità e ricca di fibre.

Lo scorso 9 maggio 2024 ci ha regalato The Cell 2. La soglia del terrore che non rivedevo da quel 2010 in cui l’ho scoperto e mi ha lasciato un’ottima impressione: gli ho dato voto 6 su 10 nel mio database etrusco, un voto che forse oggi non riassegnerei ma che rende bene la piacevole sorpresa di scoprire un filmaccio fetente ma con una buona idea.

Era il 2000 quando la New Line Cinema affida a Jennifer Lopez un film stranissimo, girato da quel Tarsem Singh che ci aveva incantati tutti con il videoclip Losing My Religion (1991) dei R.E.M., e che per la Nike aveva appena girato il mitico corto Good vs Evil (1996) coi giocatori di calcio che affrontano il diavolo: se c’era un regista indicato per un film folle, quello era Tarsem.

Scritto da Mark Protosevich, che in carriera ha fatto pochissimo e tutto sbagliato, la forza di The Cell (2000) sta sì nello spunto – con l’agente Catherine Deane che entra nei sogni degli assassini – ma soprattutto nelle lussureggianti e sconvolgenti scenografie che ricostruiscono il folle mondo interiore di un maniaco omicida. Ricordo ancora lo stupore con cui sono rimasto incantato da quelle scene.

Stando a IMDb la New Line Cinema ha sborsato più di trenta milioni di dollaroni fruscianti per creare quelle scene spettacolari: al momento di farne un seguito televisivo, con a disposizione solamente i soldi del Monopoli, come farà la New Line Home Entertainment a sfornare un The Cell 2 senza far ridere i polli? La risposta è presto detta: non può, e quindi fa ridere i polli. Ma se la seconda parte fallisce, la prima non lo fa.

Già dal titolo è chiaro che si tratta di una produzione casalinga

Il regista Tim Iacofano, prettamente televisivo, riceve dalla New Line dei tappi di bottiglia come unico budget a disposizione, e l’uso di qualche ambientazione nello Utah, che tanto è inverno, è tutto pieno di neve e non c’è nessuno in giro, quindi possono girare tranquillamente. Voglio vedere voi a tirare fuori da tutto questo un film da urlo!

Un esercito di sceneggiatori si mette sotto e tira fuori l’idea di Maya (interpretata dalla splendida Tessie Santiago, come se dopo la Lopez fosse obbligatorio avere un’altra protagonista latina), una donna che aiuta l’FBI proprio come faceva Catherine ma la vediamo fallire nella sua prima missione, per tornarsene a usare i propri poteri per ritrovare i cagnolini scappati di casa.

La vedenza non è granché, ma la sentenza spacca!

La parte interessante o comunque meno peggio della storia è che il maniaco a cui Maya dà la caccia, un torturatore seriale che chiamano “la Cuspide” (The Cusp) per motivi ignoti, per motivi ancor più ignoti impone alle proprie vittime – tutte ragazze giovani – una tortura particolare: le uccide in maniere “leggere” così che poi è in grado di riportarle in vita. Niente sangue, niente ferite profonde, niente truculenza ma lo stesso un comportamento da puro schizzato DOC.

Maya è stata l’unica delle vittime della Cuspide a riuscire a scappare, dopo essere morta per ben sei volte tra le sue mani: il trauma profondo di questo trattamento ha generato i poteri della donna, qualcosa di paranormale di cui il maniaco è ben conscio, tanto da lasciare in vista dei libri di parapsicologia perché Maya li veda durante le sue visioni.

Un indizio lasciato apposta perché Maya lo “veda”

Maya dunque ha la vedenza ma anche la sentenza, vede e sente tutto ciò che riguarda il maniaco come se fosse lì con lui, eppure non riesce mai a vedergli il volto: a questo ci pensano gli sceneggiatori.

L’intero cast del film è composto da attori di passaggio, poi l’ex quasi-stella hollywoodiana Frank Whaley: secondo voi… chi sarà mai il misterioso maniaco? Per fortuna ci viene quasi subito rivelato il mistero meno mistero di sempre, visto che sin dal primo secondo è palese che sia Whaley l’assassino, così almeno evitiamo il teatrino di lui che finge di essere innocente.

Sempre con totale dabbenaggine gli autori cercano di imbastire un thriller in cui i sospetti ricadano sul bravo agente Harris (Chris Bruno) che si allea con Maya, ma è tutto scritto talmente male da sembrare una parodia: in una città totalmente deserta Maya e Harris scappano dall’FBI e fanno le faccette e le mossette come se questo fosse un film vero, cosa che chiaramente non è. A un certo punto esce fuori un’auto gagliarda che non c’entra niente, eppure vale da sola metà film!

L’auto ruba la scena a tutti gli attori, giusto per dire quanto questi siano incisivi

L’attrice protagonista ce la mette tutta e va lodato il suo impegno, ma il film è devastante nel suo rifare il tipico thrillerone americano senza soldi e senza capacità, nel totale vuoto delle scene: capisco che avranno girato in una città paralizzata dall’inverno, ma sembra un episodio di “Ai confini della realtà”!

Comunque l’unica cosa da salvare di The Cell 2 è il rapporto di Maya con la Cuspide, con lui che gioca a manovrare i ricordi della donna, i quali nelle scene oniriche della vedenza – e della sentenza – assumono forma concreta così che il maniaco possa distruggerli. E la Total Recall… muta!

Il maniaco che distrugge i ricordi di Maya: fra le poche idee da salvare del film

Il film ha qualche idea azzeccata che però è dispersa nel vuoto innevato di ambientazioni assurde e soprattutto di una sceneggiatura ridicola, quasi amatoriale.

Lo stesso, come sempre, ringrazio Italia2 per un nuovo horroraccio in odore dell’Italia1 dei tempi d’oro.

L.

– Ultimi horror da Italia2:

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Heat (1986) Burt “Black Jack” Reynolds


A volte il MACC (Motore ad Alta Coincidenza Cinematografica) ti riversa addosso così tanto materiale che devi fare gli straordinari per gestirlo tutto, perciò quel magico giorno in cui ho trovato una bancarella “svuota-cantine” pensavo solo di aver avuto fortuna: non credevo che l’universo volesse farmi strumento di un recupero unico.

Del film di oggi infatti si è persa quasi ogni traccia in Italia, destino comune al 95% della filmografia di Burt Reynolds, che in tempi lontani era considerato un divo soprattutto da chi non aveva idea delle porcate in cui ha recitato.

Le schermate di questa pagina sono prese da un’edizione digitale anglo-tedesca (per fortuna esiste la Germania, la patria del supporto fisico!) mentre l’introvabile edizione da pellicola italiana del film me la sono gustata da un’altrettanto introvabile VHS del 1999. Ma andiamo con ordine.

L’oscura e sfocata versione da VHS italiana

In effetti il recupero anglo-tedesco è stato scintillante!


William Goldman: l’autore “d’oro”

Negli anni Settanta William Goldman si affaccia al cinema ma non è quello il suo lavoro: è un romanziere di successo che a forza di vedere i propri libri finire sul grande schermo decide di entrarci pure lui, in quel mondo. Firma robbetta come Butch Cassidy (1969), La fabbrica delle mogli (1975) e Tutti gli uomini del presidente (1976), proprio bazzecole, mentre intanto porta in libreria Il maratoneta da cui il film con Dustin Hoffman. Un autore dalla penna d’oro.

Prima edizione Sonzogno 1986

Con gli Ottanta sembra fermarsi la sua attività filmica ma poi esce fuori la notizia che il suo romanzo The Princess Bride (1973) diventerà al cinema La storia fantastica (1987) e di nuovo Goldman diventa un nome caldo in città: perché uno che da anni lavorava con le più grandi produzioni hollywoodiane… accetta l’oscura richiesta di quattro scappati di casa? Nel 1985 il suo romanzo Heat – pubblicato per Warner Books, mica Pizza & Fichi! – per l’edizione audio viene letto da Bruce Dern, giusto per far capire quanto volasse alto Goldman, come si spiega allora che i diritti di quel romanzo finiscono in mano di produttori improvvisati che tirano fuori questa stupidata con Burt Reynolds?

«Questa è la storia di un uomo e della sua città. L’uomo è Nick Escalante, la città Las Vegas. È la cinquemillesima mattina di Nick, qui, ma lui non sta proprio festeggiando. Alto un metro e novanta, maestro di armi da taglio, a volte guardia del corpo, altre vendicatore, investigatore e giocatore d’azzardo, è un uomo che conosce Vegas dalle vie più luminose a quelle più tristi e buie. Escalante sogna spiagge deserte di sabbia nera e città perdute… una vita libera lontana dalla città che allo stesso tempo lo nutre e lo uccide.»

Questo estratto dalla presentazione della prima edizione Warner del maggio 1985 (tradotta in esclusiva etrusca) non mi fa gridare al romanzo-capolavoro ma di sicuro negli anni Ottanta era roba che funzionava, visto che Goldman vendeva a occhi chiusi: di nuovo, perché allora accettare la proposta di casupole per trasportare questo romanzo in un pessimo filmucolo? Forse perché gli avrebbero lasciato scrivere anche la sceneggiatura? Chissà.

Sta di fatto che qualcuno deve aver pensato che Burt Reynolds all’epoca potesse essere ancora un nome spendibile, e purtroppo lo era, anche se sembra impossibile crederlo: Goldman stesso, nel suo saggio Adventures in the Screen Trade (1983, ristampato più volte) racconta come Reynolds nel 1981 fosse al primo posto degli attori più quotati, seguito da Clint Eastwood: per dare un’idea, Harrison Ford era al sesto posto..

Insomma, Burt in quella prima metà degli Ottanta spaccava, malgrado continuasse ad essere coinvolto in pessimi film. Non stupisce che man mano la sua stella si sia sciolta al sole.


Burt Reynolds: l’attore dimenticato

Per fortuna la distribuzione italiana da anni ha completamente cancellato Burt Reynolds dai suoi radar, serve il microscopio elettronico per beccarlo in TV e di solito sono film che non vale la pena cercare, ma un tempo l’attore era famosissimo persino in Italia, per motivi che mi sfuggono.

Studiando le uscite italiane del 1973 e 1974 per il mio folle progetto del Menotti, ho scoperto diversi film con Burt di cui non avevo mai sentito parlare: possibile titoli con un attore così famoso siano finiti nel dimenticatoio? Mi è bastato vederli per capire: temo che neanche alla Total Recall riuscirebbero ad estirparmi il ricordo di La violenza è il mio forte! (1973) e McKlusky, metà uomo metà odio (1973).

Però sono cresciuto negli anni Ottanta e la TV mandava Burt a raffica, presentandolo come il divo dei divi, prima di dimenticarlo completamente. In realtà erano tutte repliche, gli anni Ottanta di Burt sono po’ opachi, a parte il comunque apprezzabile Pelle di sbirro (1981). All’epoca una leggenda diceva che la sua stella si sia offuscata quando ha posato nudo per una rivista femminile, il che l’avrebbe screditato agli occhi di non si sa chi. Temo che basti sfogliare la sua filmografia per capire i veri errori commessi da Burt.

Per ragioni ignote, dunque, uno degli sceneggiatori più apprezzati del cinema e il divo più “màsculo” dello schermo si ritrovano a lavorare per questo film minuscolo e alquanto sgradevole, per fortuna dimenticato dalla distribuzione italiana.


La (distratta) distribuzione italiana

IMDb ci dice che Heat esce in Francia nel novembre 1986, mentre negli Stati Uniti arriverà solo nel marzo 1987, comunque è un tempo record visto che il romanzo è del maggio 1985: qualcosa mi dice che gli accordi erano stati presi già durante la scrittura.

Grazie al sempre mitico ItaliaTaglia.it sappiamo che ha ricevuto il visto della censura italiana il 14 aprile 1987, con un divieto ai minori di 14 anni (credo per il cattivo gusto della pellicola!), e addirittura la Cannon Italia lo porta nelle nostre sale dal 29 maggio 1987 con il titolo Black Jack.

Deve rimarci pochino in sala, perché è datata allo stesso 1987 la VHS Multivision/Cannon, mentre sbarca su Rete4 nella seconda serata del 3 aprile 1990.

Su bancarella ho trovato una ristampa del 1999 della collana “I duri del cinema”, iniziativa de “il Borghese” che non ho capito bene cosa sia, ma se ristampa film d’azione in VHS ha tutta la mia approvazione. (Sulla stessa bancarella, della stessa collana, ho trovato Delta Force.)


Lo stropicciato eroe

Il nostro Burt Reynolds crede siano ancora i primi anni Settanta, quando l’intero film si basava su lui che mostrava il proprio corpicino e si rimorchiava tutti i personaggi femminili. Ora, nel 1986, ha il parrucchino e l’atteggiamento di un dinosauro, ma facciamo finta che sia ancora il Burt di una volta.

Un divo anni Settanta che prova a fare le stesse cose negli Ottanta

Qui è Nick Escalante, che nell’ufficio ha dei poster dell’Italia quindi forse ha discendenze nostrane, ma poi tutti lo chiamano Mex: che sia ignota la differenza tra italiano e messicano? In realtà viene più volte spiegato che il suo sogno sia abbandonare Las Vegas e stabilirsi a Venezia, quindi forse è un messicano che sogna l’Italia. Boh.

Inizia la vicenda mostrandosi sgradevole perché si è messo d’accordo con il suo cliente timido: Nick fa l’attaccabrighe, il cliente mingherlino lo manda a tappeto e conquista la bella. Così poi Nick smette di fare lo sgradevole… ehm… ho detto, smette di fare lo sgradevole… Niente, prima e dopo è totalmente uguale!

Giuro che una volta questo era un divo, dovete credermi!

A voler essere buoni, ma proprio tanto buoni, possiamo dire che con il personaggio di Nick il nostro Goldman vuole destrutturare una figura canonica della narrativa ancora in vigore all’epoca, l’eroe hardboiled d’altri tempi che conosce tutti i bassifondi della città, tutti i vizi dei cittadini, è amico delle prostitute e non le giudica perché non si sente “pulito” abbastanza per scagliare la prima pietra, e infine accetta i casi più pericolosi per un innato senso di auto-distruzione.

Per ritrarlo come un anti-Marlowe (o anti-Hammer o scegliete voi l’eroe che vi piace di più), Nick è uno che accetta ogni tipo di lavoro, degradato in pratica a traffichino che si arrabatta in vista di un sogno che proprio perché sa essere impossibile continua a sognare, in questo caso trovare centomila dollari per trasferirsi a vivere a Venezia. Perché si sa che senza quella cifra nessuno può sopravvivere in quella città.

Nick, sono gli anni Ottanta, ancora fai il Marlowe dei poveri?

Finito di pensar bene, la sensazione purtroppo è un’altra: Goldman aveva il conto del droghiere da pagare in fretta e ha buttato giù la prima buffonata che gli è venuta in mente, scritta accucciandosi su un foglio e scrivendo con lo sfintere dotato di penna: per la sceneggiatura del film ha ripetuto la stessa operazione, tanto è prodotto da gente di passaggio, non lo vedrà nessuno. In effetti…

Uno dei brandelli di storie che appaiono a casaccio nel film vede Cyrus Kinnick (un giovane Peter MacNicol) ingaggiare Nick per tenerlo d’occhio: il giovane infatti è vittima del demone del gioco e in una sera arriva a perdere persino cento dollari, quindi… paga mille dollari a Nick per tenerlo a bada quando è al tavolo verde. Se vi sembra una stupidata, sappiate che è l’idea migliore del film!

Nick, scusa, non ti sembriamo due personaggi ridicoli e imbarazzanti?

Holly (Karen Young) chiama Nick e l’avverte che la sera prima, mentre batteva, un tizio ricco l’ha sdrumata di botte, e se per caso vi state chiedendo chi cacchio sia ’sta Holly, sappiate che è una domanda senza risposta. Ha almeno vent’anni meno di Nick ma questo non vuol dire niente: potrebbe essere la figlia, l’amante, la suocera o la nonna, tutto è misterioso.

Nick dice alla donna che non l’aiuterà, quindi si informa su dove sia il ricco ma le dice che non l’aiuterà, quindi la porta dal ricco ma dice che non l’aiuterà, massacra di botte le guardie del corpo e lascia il ricco nelle mani vendicative di Holly ma le dice che non l’aiuterà, rischia la vita perché la donna possa umiliare il ricco ma le dice che non l’aiuterà. E pensa se avesse voluto aiutarla!

I successivi trenta minuti di film passano con Nick che gioca a black jack e vince, prima 100 mila dollari, poi 200 mila poi mille miliardi di miliardi di miliardi poi perde tutto, e noi perdiamo insieme a lui perché sono scene prive di qualsiasi senso. Poi un’altra mezz’ora con il giovane Cyrus che non voleva perdere cento dollari ma ora ci dice che è milionario perché è un genio dei computer, ma vuole che Nick gli insegni a lottare e via, altra mezz’ora con Nick che insegna a lottare al pivello. Riuscirà questo film a mostrare una scena con un minimo di senso compiuto?

Nick, parliamo da un’ora e non abbiamo detto un cazzo: mi segno questo record mondiale

Siamo a quindici ore di film e ancora non si vede uno straccio di trama all’orizzonte, poi arriva uno e dice a Nick che deve subire un processo mafioso in cui rischia la vita: ma chi è ’sto tizio? Come ha trovato Nick? Perché Nick lo segue? Ci spiegheranno qualcosa? Il ricco che Nick ha fatto umiliare da Holly è Danny DeMarco (Neill Barry), l’odioso stereotipo del figlio coglione del boss: avete mai visto un boss mafioso con un figlio intelligente? Mai, è una forma di vita che non esiste in narrativa.

Il giovane figlio del boss, che in quanto tale è geneticamente coglione

Nick dice che non è stato lui perché lui usa SOLO armi da taglio: MAI nel film usa armi da taglio, invece usa le pistole, ma lui usa SOLO le armi da taglio, lo sanno tutti e questo basta a scagionarlo, malgrado MAI usi armi da taglio: il romanzo originale si intitola infatti Edged Weapons malgrado non esista un’edizione con questo titolo. Insomma, siamo nella pura narrativa dell’assurdo.

DeMarco è figlio di un boss mafioso e quindi coglione di natura, infatti vuole vendicarsi di Nick e ci prende la sveglia: il capolavoro dei capolavori della storia dei capolavori arriva nel finale, quando DeMarco è armato di pistola e Nick è disarmato – perché essendo maestro nell’uso di armi da taglio non usa MAI armi da taglio – e quindi che fa DeMarco? Si mette paura e si suicida. Non posso credere che questa palata di letame fumante sia davvero opera di William Goldman…

Segna, ragazzo: romanzi e sceneggiature le devi scrivere accucciato su un foglio

Ogni singolo fotogramma di questo film è un’offesa al pubblico pudore, è tutto mille volte sbagliato in ogni scena: il fatto che sia l’ultima opera del regista Dick Richards è l’unico atto di giustizia, anzi dovrebbe ringraziare che l’hanno fatto andare via con la fedina penale pulita.

Fotografia, montaggio, scenografia, tutto è sbagliato: le scene in cui Burt usa le arti marziali fanno piangere il Cielo, un montaggio amatoriale cerca di farci credere che sia lui a fare dei calci volanti – totalmente inutili alla vicenda – e le uniche scene in cui Burt non è inguardabile è quando sta fermo e zitto, tutto il resto è terremoto e tragedia.

Ma tutto questo è niente di fronte all’abissale mostruosità che ho scoperto, una vera cattiveria con cui il MACC ha voluto punirmi… perché questa cagata di film è stata rifatta nel 2015, di nuovo sceneggiato da William Goldman (che si becca così la recidiva) ma stavolta con il titolo… Joker. Wild Card di Simon West, cioè il film con Jason Statham che più ho odiato della sua filmografia.

La settimana prossima dovrò fare incetta di antiemetici e rivedermi quella mostruosità di Wild Card dopo quasi dieci anni dalla prima orripilante visione: ma quando il MACC ordina non si può che eseguire. Saprà Jason fare peggio di Burt? Ovviamente no: niente è peggio di Burt!

Non ci si può lamentare dei doni del MACC quindi ringrazio per questa videocassetta super-chiccosa, e comincio un percorso ascetico di filosofia Zen per prepararmi alla versione moderna di questo film, la settimana prossima.

L.

P.S.
Per le voci italiane del film, rimando al mio “Dizionario del Doppiaggio“.

– Ultimi film d’azione:

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Satan’s Little Helper (2004) Halloween killer


Torno a sfogliare il catalogo gratuito della piattaforma Chili.com solo per scoprire che siamo agli scarti degli scarti. Per dire, in primo piano ci sono due film con ciò che rimane di Mickey Rourke, The Commando (2022) e Adverse (2020), quest’ultimo mandato in prima visione da Rai4 due anni fa. Altro che gratis, dovrebbero pagare gli spettatori per vederli!

Che film dovrei consigliare di questa piattaforma, Killer Crocodile (1989) o Ouija House (2018)? Oppure Ghiacciaio di sangue (2013), lo scopiazzo de La creatura dei ghiacci (2009)?

La piattaforma raccoglie il meglio della scolatura umidiccia del primo decennio del nuovo millennio, film che all’epoca prendevo in giro su facebook e tutti mi chiedevano perché mai vedessi certe porcate: ora quelle porcate sono offerte in piattaforma e sono sicuro che quegli stessi vecchi amici se le stanno vedendo. Roba inadatta alla vita umana come Headhunter (2005) di Paul Tarantino (capita la furbata del nome?) o Headspace (2005), che almeno offre una divertente citazione scacchistica.

Anche le cose più recenti sono devastanti, come per esempio Out of Blue (2018), autoriale e pieno di bravi attori che però spinge lo spettatore al suicidio.

Comunque un consiglio ve lo do, 10 cose di noi (2006) con Morgan Freeman, simpatica commediola che ha due grandi pregi: la meravigliosa canzone La Receta di Kemo the Blaxican (che non vi uscirà più dalla testa) e l’aneddoto che Jonah Hill ha raccontato al “The Graham Norton Show” il 23 maggio 2014, dove rivela che Morgan Freeman non è il più affabile ed espansivo degli attori.

Infine, nel consigliare Blood and Money (2020) con Tom Berenger, già passato per Prime Video e da vedere senza impegno, l’unico titolo a me ignoto che ha attirato la mia attenzione è stato Satan’s Little Helper (2004), delizioso gioco di parole tra Santa e Satana che simboleggia la commedia nerissima e un po’ folle che mi sono gustato.

L’unico prodotto di Chili che ha attirato la mia attenzione

Arriva in Italia intorno al 2005 con il titolo ammiccante Halloween Killer: lo trovate su Prime Video ma solo a pagamento (per ora), mentre su Chili.com è gratuito.

Non è né Natale né Halloween, ma è lo stesso un film giusto

Jeff Lieberman, lo sceneggiatore de La storia infinita 3 (1994) per quanto questo possa valere, scrive e dirige una follia talmente folle da fare il giro e diventare geniale: pur essendo un filmetto da due soldi, sono rimasto ipnotizzato a vederlo fino a tre quarti, poi purtroppo diventa un’americazzata e tutto crolla. Peccato.

Il tipico gioco che fa male ai giovani

Cavalcando le eterne polemiche sui videogiochi violenti – che Redbavon ci racconta con dovizia di particolari – Lieberman ci presenta come protagonista Douglas (Douglas Whooly), un bambino che a forza di ammazzare la gente sul suo videogioco portatile si convince che sia una figata e spera di cuore di incontrare Satana perché vuole fargli da aiutante.

Non so che console sia, ma di sicuro il gioco è violento

Siamo ad Halloween e tutti nel quartiere girano mascherati, anche un feroce massacratore seriale che sta posizionando le sue vittime come fossero scenografie festive da Halloween. L’unico che si accorge di lui è proprio Douglas che capisce al volo di essere al cospetto di Satana (interpretato da Joshua Annex che però non rivelerà mai il volto).

Vi piacciono i cadaveri finti di Halloween? Però non sono finti…

Qualcosa scatta fra i due, che si sono trovati: Satana ha trovato il suo piccolo aiutante. Inizia una geniale commedia nera in cui il bambino guida il maniaco massacratore in giro per la città non riuscendo a separare la finzione videoludica dalla realtà, un po’ credendoci un po’ giocandoci, mentre Satana sembra del tutto intenzionato ad esaudire i desideri del bambino, il quale è parecchio carente in quella ventilata “innocenza” che si attribuisce alla tenera età.

Satana il massacratore ha trovato il suo piccolo aiutante

La sorella Jenna (Katheryn Winnick) e mamma Merrill (Amanda Plummer, quando ancora si vedeva in giro) credono che Satana sia il fidanzato di Jenna mascherato, e la commedia degli equivoci va avanti a lungo, ogni volta Satana è scambiato per qualcun altro ed è tutto un susseguirsi talmente geniale di trovate assurde che non si può far altro che applaudire.

Aspetta, ma non eri tu vestito da Satana?

Come anticipavo, fino a tre quarti il film è oro puro, perché è una presa in giro degli slasher con maniaco mascherato (e muto) e le azioni truculente di Satana sono sempre equilibrate da trovate da commedia nera deliziosa. Poi però a Lieberman dev’essere finita la creatività e si è affidato al qualunquismo più fastidioso e urticante. Perché d’un tratto il film diventa uno slasher vero, e quindi dalla sceneggiatura pessima.

L’intero ultimo quarto del film è completamente occupato da tre personaggi, chiamiamoli A, B e C, che dicono le seguenti frasi a ripetizione: “A, rimani qui, che vado a cercare B”, “B, eccoti, ma dov’è A”, “C, rimani qui, che vado a cercare A”, “A, eccoti, ma dov’è B?”, “A, rimani qui, che vado a cercare B”, “B, eccoti, ma dov’è C?”, “C, rimani qui, che vado a cercare B”, “B, eccoti, ma dov’è A?” In pratica, lo stesso identico testo che si può trovare in tutti gli slasher, pura melma maleodorante che secerne da una mente di sceneggiatore senza idee.

Molto più geniali le scorribande felici dei due diavoletti

È davvero un peccato, perché Satan’s Little Helper è strapieno di ottime trovate, fresche e cattive, che poi finiscono tutte nel baratro della volgare qualsiasità da tipico horror americano: se non ci fosse quella orripilante e noiosissima parte finale sarebbe un piccolo capolavoro.

Vista la qualità media dell’offerta gratuita di Chili.com, direi che questo è un gioiellino che mi sento di consigliare, soprattutto per gli amanti di Michael, Jason e degli altri massacratori (più o meno muti) dell’horror.

Per il resto… è la qualità dei suoi film a mettere davvero paura, su Chili.com!

L.

– Ultimi filmacci su Chili.com:

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[Serie TV] Firefly – 1-2. Serenity (il vero inizio)

Lo stile dell’amico Sam Simon di recensire un episodio a settimana di una serie TV mi ha fatto riscoprire un piacere che ormai avevo perduto da molti anni: aspettare sette giorni per ogni singolo episodio di una serie, invece di divorarmeli tutti in rapida sequenza, con il rischio di non ricordare poi nulla. (Mi è successo per esempio con “X-Files”, che ho visto tutto insieme per dimenticarlo un secondo dopo!)

In realtà dopo la grande rivoluzione di Netflix delle serie presentate insieme sono un po’ tutti tornati all’episodio a settimana, ma con le serie di “Star Wars” l’odio è stato così profondo che non mi sono gustato l’attesa, men che meno con quella robaccia immonda di “Picard”: ogni settimana c’era solo la bile e il digrignar di denti ad aspettarmi. No, volevo fare questo esperimento con qualcosa che avrei amato sicuramente: perché allora non rivedermi una serie che ho molto amato tanto tempo fa?

Visto che “Firefly” è una serie semi-inedita in Italia – tutti conoscono solo quella robaccia di film, che odio visceralmente per quanto male fa alla serie – è un’occasione per ricordare quella meravigliosa ondata fanta-seriale di inizio secondo millennio, quando era ancora possibile trovare la “robba bbuona” in TV.


Firefly
lo spin-off della saga di Alien!

Mettiamo subito in chiaro le cose: dal film Alien, la clonazione (1997), quarto titolo della saga, la Fox ha tratto una serie televisiva… chiamata “Firefly“. Whedon fa il vago, dice che non ci aveva pensato, ma lo sappiamo tutti che è così.

Ho già raccontato come, grazie alle dichiarazioni di Joss Whedon, sappiamo che sul finire degli anni Novanta la Fox vuole scrivere un quarto film alieno dove clonano Newt, e visto che grazie a “Buffy” Whedon è in quel momento il miglior autore di storie con ragazze d’azione lo chiamano per un Alien Resurrection dove la giovane Newt affronta gli xenomorfi.

Whedon scrive a manetta, inonda la Fox di idee per il quarto film alieno, tutte prese dai dirigenti e gettate dalla finestra: alla fine gireranno l’esatto opposto di quanto Joss ha scritto, portandolo alla disperazione e alla decisione di non fare mai più lo script doctor, mansione che ricopriva da un decennio. Che ti fa Whedon? Prende tutte le sue idee e le trasforma in “Firefly”, girato negli stessi set del film alieno, con la Betty che ora si chiama Serenity e finalmente può raccontare le avventure dei suoi pirati spaziali con una ragazza misteriosa dal passato burrascoso. Che però non si chiama più Newt.


Serenity
il vero inizio, anche se mandato per ultimo

La Fox è costituita esclusivamente da cerebrolesi, questa è una verità antica che trova ulteriore conferma qui: Joss Whedon si è presentato con un episodio pilota perfetto, due episodi a formare quello che una volta sarebbe stato un film televisivo dove si presentano tutti i personaggi prima che inizi la serie vera, un’idea ottima che infatti i dirigenti Fox, che sono tutti dementi, hanno preso e gettato dalla finestra: scrivici un altro inizio, Joss, che questo vero inizio al massimo te lo mandiamo a metà stagione. (Non lo dico io, lo racconta il saggio Firefly. The Official Companion del 2006.)

Servono dei geni per raccontare l’inizio di una vicenda a metà vicenda…

Per fortuna nel 2006 il canale satellitare Canal Jimmy in redazione aveva gente con più del mezzo neurone richiesto ai dirigenti Fox, e in Italia manda in onda gli episodi Serenity e Nuovi compagni di viaggio come primi, visto che presentano i personaggi della serie in maniera che altrimenti li lascerebbe incomprensibili.

Il canale che ha fatto conoscere la fanta-TV agli italiani

Joss Whedon di nuovo fa il vago e dice che in effetti lui non ama svelare subito troppi aspetti dei personaggi, vuole prima che il pubblico li veda in azione e poi capisca le motivazioni, ma c’è un limite: reputo impossibile apprezzare l’intera serie senza questi primi due episodi visti per primi, essendo nati per essere introduttivi.

L’antefatto, sei anni prima della serie

Sono gli ultimi giorni di una guerra che non ci viene subito spiegata ma è chiaro che si tratti della Guerra civile americana, perché questa è una serie non solo fanta-western ma anche ucronica (tanto è un termine che viene usato per indicare qualsiasi cosa) e già che siamo a buttar giù nomi a caso direi westernpunk. Ovviamente ognuno può aggiungere un’etichetta e nessuna di queste ha senso: Whedon voleva scrivere un western spaziale con cavalli e astronavi… e l’ha fatto!

Cavalli e astronavi: trovate voi un’etichetta per questa serie

In questi ultimi giorni di guerra il sergente Malcolm “Mal” Reynolds (Nathan Fillion) guida con gran difficoltà i suoi uomini, ormai allo stremo, ma ci crede: sa che i “nostri” stanno arrivando, e insieme alla fida Zoë sa che l’Alleanza che vuole conquistare Serenity Valley può essere battuta… finché appare chiaro che l’Alleanza ha già vinto.

Quando Mal riceve la notizia che i “nostri” non arriveranno, che lui e i suoi sottoposti sono stati abbandonati dal loro stesso schieramento a morire davanti all’arrivo inesorabile dell’Alleanza, qualcosa in Mal e Zoë si spezza: scoprono di non appartenere più ad alcuno schieramento.

Sei anni dopo li troviamo a bordo di una nave, la Serenity di classe Firefly, a depredare relitti e a compiere piccoli crimini ronzando di pianeta in pianeta, con l’Alleanza che li chiama «rifiuti organici» (roaches, “scarafaggi”) o «scarafaggi» (scavengers, “spazzini”).

Ma in onore dei “vecchi tempi” Mal impugna una fanta-pistola che ricorda molto da vicino la Colt 1860 Army (la pistola di Zagor!). Quella impugnata dall’attore è una Taurus 85 modificata con innesti che la rendono “fanta”.

Se c’è una fanta-arma, per me la serie è già vincente!

Mentre la sua fida seconda Zoë sfoggia un Winchester 1892 “Mare’s Leg”, un fucile con calcio e canna ridotti per essere usato come una pistola, reso celebre da Steve McQueen nella serie TV “Ricercato: vivo o morto” (1958).

Le armi giuste, i rimandi giusti, le scelte giuste

Nessun bottino nella galassia è al sicuro, con questa banda di rinnegati senza più una causa ma solo tanta voglia di soldi facili. Il problema è che i soldi non sono mai facili, e la “banda” è molto meno cattiva di quanto voglia mostrarsi.

Sembra facile fare i pirati spaziali: provateci voi!

Al capitano Mal piace pensare di essere un pericoloso pirata, un feroce criminale dello spazio, ma in realtà non riesce mai ad essere più di un trafficone astrale, anche perché il suo braccio destro Zoë finge di eseguire i suoi ordini, come se stessero ancora in guerra, quando invece è la sua coscienza incarnata e come tale non gli permette mai di spingersi oltre.

Fa parte della “banda” il marito di Zoë, Hoban “Wash” Washburne (Alan “Resident Alien” Tudyk), che guida la Serenity e occasionalmente fa da palo. Non ditelo a nessuno, ma nei tempi morti… gioca con i dinosauri di plastica!

Vogliamo tutti bene a (Resident) Alan!

La meccanica della nave è Kaylee Frye, interpretata da quella Jewel Staite che sicuramente tutti voi portate nel cuore per “Stargate: Atlantis”, perché se non amate “Stargate: Atlantis” non vi ci parlo più con voi!

Ho visto serie per molti meno motivi di questo

Chiude il quartetto di banditi Jayne Cobb (l’eterno giovane Adam Baldwin), che però bandito lo è sul serio: ricordo che Jayne è la versione “Firefly” del Johner di Alien, la clonazione, interpretato da Ron Perlman, quindi è mooooolto più cattivo di quanto Mal riesca ad apparire.

Giusto per ricordare come va vista la serie

La tensione fra Jayne e gli altri è sempre alle stelle, è l’uomo d’azione che serve alla banda ma non ci si può mai fidare fino in fondo di lui.

MAL – Com’è che non mi hai venduto?
JAYNE – I soldi non erano abbastanza.
MAL – E se mai lo fossero?
JAYNE – Be’… quello sarà un giorno interessante.

In realtà anche Jayne ha un cuore, il problema è che è nascosto sotto cento chili di cattiveria.

Janye in fondo è buono… ma molto in fondo

Ci sarebbe in realtà un quinto personaggio, anche se è più un ospite della Serenity, temporaneo nel senso italiano del termine: com’è noto, in Italia non esiste nulla di più definitivo del temporaneo.

Teoricamente è un’ospite momentanea, ma l’ambasciatrice Inara Serra (una Morena Baccarin bella da far male) sarà sempre a bordo della Serenity.

Non certo per la cortesia del suo capitano, il quale non perde occasione per ricordare come “ambasciatrice” sia un modo carino per dire “prostituta”, ma è ben nota la psicologia maschile: quando uomo è sgradevole e maleducato con una donna, è perché è pazzo di lei ma non sa come dirglielo.

Il sorriso di Morena uccide più di qualsiasi fanta-arma

Per salvare la faccia e magari incassare qualche spiccio, Mal e i suoi organizzano trasporti spaziali a bordo della Serenity: spero abbiate capito che è la versione di Whedon di un viaggio della diligenza, in cui potete stare certi i pellerossa attaccheranno, anche se qui si chiamano Reavers.

«Se salgono a bordo ci stuprano a morte, mangiano la nostra carne, cuciono vestiti con la pelle, e se siamo molto molto fortunati… lo fanno in quest’ordine.»

Per un viaggio così baciato dalla fortuna servono i viaggiatori più disparati, come per esempio il pastore Derrial Book (Ron Glass) della South Down Abbey, appena uscito dal suo monastero e pronto a viaggiare nell’universo per portare la Parola. Quale posto migliore se non un chiaro covo di peccatori come la Serenity?

Un pastore che viaggia tra pecorelle molto smarrite

L’altro viaggiatore è un damerino dall’aspetto losco, il dottor Simon Tam (Sean Maher) che ha la faccia di uno che non la racconta giusta.

È chiaro che sia il losco della comitiva

Il viaggio in diligenza per il West… pardon, il viaggio in astronave alla volta di Boros sarà burrascoso come vuole il canone western, ma a un certo punto Mal capisce che il nemico potrebbe essere anche all’interno della Serenity: è il momento di scoprire cosa mai nasconda quel damerino del dottore.

A fine primo episodio, arriva il momento del cliffhanger

È il momento di aprire la misteriosa cassa che il dottor Tam si porta dietro, perché potrebbe contenere qualcosa di pericoloso… qualcosa come… un rimasuglio di sceneggiatura!

Un po’ Newt… un po’ Call… tutta River!

Quel copione alieno con la giovane Newt che si risveglia duecento anni nel futuro, nello spazio profondo, Whedon può riciclarlo e tirar fuori una ragazza misteriosa, che fuoriesce nuda dal nulla come Ripley 8 e ha un comportamento ambiguo come Call, con un passato misterioso e un presente burrascoso.

Di lei sappiamo solo che è la sorella del dottore, un piccolo genio finita tra le grinfie dell’Alleanza che ha condotto su di lei terribili esperimenti, e per questo inizio di serie non sapremo altro su River Tam… se non che ha il volto di Summer “Terminatrix” Glau.

È qui che devo salvare John Connor?

L’equipaggio è tutto a bordo, li abbiamo conosciuti tutti, li abbiamo visti all’opera, già sono nostri amici… e la serie deve ancora iniziare! Pensare che questi due episodi la Fox li abbia cacciati a pedate mi fa una rabbia…

Prima tappa di questa cavalcata fanta-western

Fatta una deviazione su Whitefall abbiamo il tempo di vivere un’avventura puramente western, malgrado i banditi impugni armi modernissime: questo è il bello della serie!

Si vede che è una serie di fantascienza?

Da una cavalcata per salvarsi la vita alla plancia di un’astronave, tutto è graficamente folle, come i comandi della Serenity che sembrano l’ufficio di uno sfasciacarrozze: adoro quei primi anni Duemila, in cui le serie TV di fantascienza alternavano futuristico e sfasciacarrozzico.

I comandi della mia Fiat Panda del ’92 erano molto più futuristici!

Due episodi concepiti come un “film televisivo” (come si diceva un volta) che presentano alla perfezione non solo i personaggi ma anche la scrittura della serie, guizzante, divertita, divertente e piena di deliziose sparate.

SIMON – Come faccio a sapere che non mi strangoli mentre dormo?
MAL – Tu non mi conosci, quindi stavolta te lo spiego: quando ti strangolerò… sarai sveglio.

L’equipaggio di ribelli senza causa, di spazzini astrali, arraffoni o pirati spaziali che dir si voglia – che fanno le facce da duri ma in realtà sono bonaccioni – è pronto a partire, e ad affrontare i veri cattivi, cioè i rigattieri e mandanti sparsi per la galassia, che potrebbero avere la faccia di Mark Sheppard: da Battlestar Galactica a Supernatural, quando ti serve una faccia da infame, Mark è lì.

Chissà perché lo chiamano sempre a fare l’infame

Già non vedo l’ora di vedermi un altro episodio, spero quindi che l’esperimento funzioni e l’attesa di sette giorni mi sia ghiotta.

L.

P.S.
Per le voci italiane della serie, rimando al mio “Dizionario del Doppiaggio“.

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Star Trek – Quando i Klingon erano comunisti


Non me ne voglia l’amico Willy l’Orbo, ma ogni tanto il mio cuore Trek esige il suo tributo astrale!

Sembrava un argomento fuori moda, roba d’altri tempi, da libri di storia che le nuove generazioni non hanno neanche aperto, e invece dal 2022 è tutto tornato di stretta attualità: i russi sono di nuovo i “cattivi”, anche se non possono ambire al grado di “super-cattivi” che avevano quando c’era l’Unione Sovietica, che infatti rimpiangono.

Non ho trovato dichiarazioni precise in merito, ma tutti i manuali di Star Trek concordano sui due grandi arci-nemici dell’America degli anni Sessanta: i cinesi erano rappresentati dai Romulani, i sovietici dai Klingon.

Questi personaggi sono decisamente minoritari, appaiono in sole sette puntate su ottanta di “Star Trek: Serie classica”, eppure hanno gettato i semi per interi universi ancora oggi vivi e amati.


Compagno Klingon!

Il 23 marzo 1967 va in onda sulla TV americana l’episodio 1×27 di “Star Trek“: lo dico subito, la totale follia che attanaglia la numerazione degli episodi è impossibile da sbrogliare, quindi mi affido a quella di Memory Alpha ma specifico sempre il titolo, altrimenti sono numeri totalmente inutili. Sto parlando di “Missione di pace” (Errand of Mercy).

Lo sceneggiatore (e produttore) Gene L. Coon porta l’equipaggio dell’Enterprise su Organia, un mondo che la Federazione sa interessare ai Klingoniani… Anche qui, lo dico subito: il doppiaggio italiano cambia da episodio ad episodio, a volte sono Klingoniani, a volte Klingon, a volte Klingons. Qui per comodità li chiamerò tutti Klingon.

La Guerra fredda che ha retto il mondo dal dopo-guerra al 1991 in fondo è perfettamente rappresentata da questo episodio: le due super-potenze non potevano dichiararsi guerra aperta perché avrebbe significato l’estinzione umana, quindi ci si faceva guerra per interposta nazione, usando altri Paesi come caselle di una scacchiera.

Qui Organia a sorpresa è una “cella ribelle”, non è interessata al “grande gioco” né alla protezione di Kirk, vuole solo rimanersene per conto proprio.

Kirk è stupito: possibile che questa gente arretrata sia così sciocca da non volere la Federazione e le sue armi? Così sarà preda facile degli invasori Klingon! Sembrano frasi pronunciate dal 2022 ad oggi, invece era il 1967.

Insieme alle armi vi diamo la Coca-Cola: come fate a rifiutare?

Mentre Kirk e Spock sono a terra, cercando di convincere una società felice ed arretrata ad armarsi e ad imparare la violenza, arrivano i perfidi Klingon, capitanati da Kor (interpretato da John Colicos, che leggenda vuole abbia suggerito al creatore della serie, Gene Roddenberry, il trucco “economico” da dare ai Klingon).

1967: per la prima volta entra in scena un Klingon

Un momento… questo è un Klingon? E i bozzi in testa? E il nasone nodoso? E l’aspetto ben noto che i personaggi avranno nei film anni Ottanta e poi nell’intero universo Trek?

Chi come me è cresciuto con TOS sa che un tempo era tutto più semplice… anche i Klingon.

Quando i Klingon erano molto più semplici…

La Paramount non può spezzare il cuoricino dei fan, spiegando loro che non è mai esistito alcun Canone in “Star Trek” così come non esiste in alcun altro universo narrativo, perciò quando i colleghi allibiti di Worf gli chiedono spiegazioni, in “Deep Space Nine” 5×06 (4 novembre 1996), il più celebre dei Klingon non può che rimanere sul vago: «Nessun Klingon ne parla mai con gli stranieri».

Nessuno sa il mistero della “trasformazione Klingon”

Tornando su Organia, Spock fa notare come da secoli la società locale sia ferma a livello tecnologico e quindi culturale, quasi fosse un’onta, e questo accenno non può che farmi accendere mille lampadine.

Gli autori dell’episodio non lo possono sapere, il libro pare uscito in lingua inglese solo nel 1973, ma due autori russi, anzi no, due autori sovietici – i mitici fratelloni Arkadij e Boris Strugackij (o Strugatsky, all’inglese) – nel 1964 avevano pubblicato È difficile essere un dio (di cui ho già parlato), capolavoro che vede la presenza di uomini del futuro nascosti come osservatori in un pianeta lontano dove la società è ferma… esattamente alla stessa età mostrata da Organia!

Sia gli autori statunitensi che quelli sovietici vedono questo come un difetto, anche se la tesi del romanzo è che la tracotanza di aiutare chi si crede inferiore a sé viene sempre punita, perché quando un dio scende nel fango degli uomini perde ogni potere. Qual è il messaggio americano? Che gli americani sono migliori dei sovietici, com’è normale in un’opera di soft power (cioè “propaganda”) come una serie televisiva.

Gli americani sono belli e buoni, i sovietici brutti e cattivi: ecco l’assunto sottilissimo

Guarda a volte la coincidenza, qui ci viene detto – e mai più ripreso – che nell’impero Klingon c’è controllo costante su tutti, anche i capi sono spiati e controllati, tipo quello che faceva l’Unione Sovietica (o almeno così si raccontava all’epoca), ma sebbene Kor mostri un’accesa animosità nei confronti di Kirk, in realtà è necessario specificare che russi e americani non sono in guerra, come farà l’episodio 2×03, “Una prigione per Kirk e Co.” (Friday’s Child, 1º dicembre 1967).

«Non mi risulta ci sia guerra tra i nostri due popoli, capitano», così esordisce il Klingon Kras (Tige Andrews) all’inizio dell’episodio scritto da Dorothy Catherine Fontana, in cui si ripresenta in pratica la stessa situazione: su Capella IV, un pianeta tribale e quindi ancora più arretrato, la Federazione e i Klingon si litigano la possibilità di avere influenza sui locali, i quali essendo un popolo di guerrieri stavolta si sentono più affini ai Klingon.

La prima apparizione di un saluto Klingon

Qualcuno dev’essersi reso conto che forse era un po’ esagerata come caratterizzazione, o forse entra in ballo la ben nota propensione americana a non avercela con i popoli ma solo con chi li guida e li travia (secondo loro), così ecco che nella seconda stagione di “Star Trek” entra in scena il guardiamarina Chekov, un nome che più russo non si può e interpretato da un vero discendente russo come Walter Koenig. Così con il celebre 2×13 “Animaletti pericolosi” (The Trouble with Tribbles) abbiamo un russo che odia… i sovietici!

Chekov odia così tanto i Klingon sovietici che ne sente l’odore nello spazio!

Il messaggio mi pare chiaro: i cattivi sono i gerarchi comunisti, quelli che opprimono il popolo, che lo spiano e lo costringono a fare ciò che non vuole, mentre i singoli russi che vogliono conoscere la libertà sono tutti buoni e ben accetti, non hanno che da scappare e venire tra le braccia degli americani, come in effetti facevano molti artisti ed atleti dell’epoca.

Chekov è dunque un russo buono, e come lo si dimostra al pubblico americano? Semplice: gli si fa fare qualcosa di così americano che più americano non si può: l’effetto BAZ. Ma lo vedremo più avanti. Intanto andiamo su un altro pianeta ancora più arretrato, stavolta fermo all’età della pietra, nell’episodio 2×16 “Guerra privata” (A Private Little War), e stavolta scende in campo uno sceneggiatore d’eccezione: papà Gene Roddenberry in persona.

Su Neural anni prima Kirk aveva partecipato a una missione amichevole dove aveva conosciuto dei primitivi, come al solito promettendo loro la protezione della Federazione senza però violare la Prima direttiva, cioè lasciandoli liberi di evolvere a modo loro. Ora che ci torna, Kirk scopre con orrore che l’evoluzione ha fatto un po’ troppi passi in avanti… visto che i nemici dei suoi amici impugnano dei moschetti.

Certo che dall’età della pietra se ne sono bruciate di tappe!

Chissà se dieci anni dopo George Alec Effinger, per il suo splendido romanzo La ragione per cui (Those Gentle Voices, 1976), ha pensato a questo episodio, visto che lo spunto è molto simile: la responsabilità di intromettersi in una cultura straniera deviandone il naturale corso. Ma esiste un corso “naturale”? In fondo tutte le culture terrestri si sono evolute grazie proprio alle contaminazioni di altre culture, che portavano sì violenza e distruzione ma anche idee poi fuse con i locali.

Kirk di queste finezze se ne è sempre fregato, lui interviene ovunque e comunque, e scopre che su Neural il problema è sempre lo stesso: sono arrivati i Klingon – capitanati da Krell (Ned Romero) – e stanno armando i rivoluzionari locali facendo scalare loro parecchi gradini dell’evoluzione armigera. Infatti dopo il moschetto Krell promette la canna rigata: ma quante ne sa, ’sto Klingon, dell’evoluzione degli antichi fucili terrestri!

Domani ti porto un M16 e la settimana prossima una spada laser

Non serve molto a vedere in questo episodio una denuncia dei sovietici che armano altri Paesi per controllarne i Governi e fomentarli contro l’America, giustificando così gli americani nel fare la stessa identica cosa. E quella di Roddenberry non è una denuncia del sistema, è la critica di un solo giocatore, perché infatti davanti all’allibito Bones il nostro Kirk fa un’accorata apologia della “corsa alle armi”, tipica della Guerra fredda.

Quello che un tempo si chiamava Equilibrio del Terrore

Kirk, da bravo americano degli anni Sessanta, sostiene che l’unica pace si ottenga dal numero pari di armi fra due potenze, e se una le aumenta anche l’altra lo deve fare, e questo discorso per decenni ci è stato spacciato per unica soluzione accettabile. Per fortuna questa apologia bellica Roddenberry riesce a stemperarla in più punti, sia lasciando McCoy totalmente contrario sia facendo confessare a Kirk di non essere felice della situazione.

McCOY: Ha ottenuto ciò che voleva.
KIRK: Non ciò che volevo, Bones: ciò che era necessario.

Quel 2 febbraio 1968 Roddenberry dice a tutti gli spettatori anglofoni che la corsa alle armi è necessaria, che dobbiamo armare noi e i nostri amici e i nostri vicini… altrimenti lo faranno i Klingon.

Di nuovo mi piace notare come l’autore stemperi il messaggio di propaganda ufficiale ricordando come le armi non servano solo per la guerra ai sovietici, ma possono essere usate dall’amico contro l’amico, in un turbine da “guerra eterna” paventato da McCoy.

Quando miri ai sovietici ma spari ai tuoi amici americani

Avevo accennato all’effetto BAZ che dimostra come il russo Chekov si guadagni la medaglia a stelle e a strisce.

Il 23 ottobre 1968 esce nei cinema americani Ice Station Zebra di John Sturges, film di guerra arrivato in Italia come Base Artica Zebra, da cui mi piace tirar fuori la sigla BAZ.

Nel film il protagonista Rock Hudson è praticamente il Kirk del grande schermo e deve guidare i suoi uomini in una missione delicatissima contro i cattivi sovietici, cercando di non far scoppiare una guerra e portare tutti a casa.

Negli ultimi minuti di film, in un confronto tesissimo fra i due schieramenti, un tenente americano del tutto a casaccio si lancia contro i russi, senza alcun motivo, senza averne ricevuto l’ordine. A cosa è servito? A niente. Solo a mostrare che chi muore per la patria vissuto è assai, anche se è una morte totalmente inutile.

Il 1° novembre 1968, cioè solo una settimana dopo, Kirk si trova nella stessa identica situazione, uguale uguale, con i Klingon capitanati da Kang (Michael Ansara) nell’episodio 3×11 “La forza dell’odio” (Day of the Dove). E cosa fa il guardiamarina Chekov? Lo stesso identico atto di inutile patriottismo, anche se stavolta non viene ucciso.

L’effetto BAZ che rende il russo Chekov un vero americano fuck yeah!

Al grido di «Cosacchi!» (ma perché?) Chekov si lancia contro i Klingon guadagnandosi così la medaglia di americano DOC. Intanto però lo sceneggiatore – il celebre Jerome Bixby che tanto bene ha fatto alla fantascienza al cinema e in TV – ha ambizioni più sottili: smussare gli angoli del terribile precedente episodio di Roddenberry.

Kang e sua moglie Mara (Susan Howard): la prima donna Klingon mostrata!

Lo spunto è che sull’Enterprise membri della Federazione e soldati Klingon si scontrino in continuazione, in una guerra potenzialmente senza fine, spinti però da un’entità aliena che si nutre di odio: più le differenze sociali, razziali e morali si accentuano, più l’entità “ingrassa”. Ecco dunque un bello scarico di responsabilità: la Guerra fredda in fondo non è colpa di nessuno, siamo costretti a farla. Quand’ero bambino si diceva “Mannaggia al diavoletto che ci ha fatto litigare”…

Per la prima volta viene proposto l’improponibile: basta all’assurda violenza fra Federazione e impero Klingon!

Almeno su schermo, americani e sovietici capiscono l’assurdità del loro agire

Può sembrare del buonismo spicciolo, ma che un prodotto americanissimo proponga la pace tra americani e sovietici nel 1968, nel cuore pulsante della Guerra fredda, a sei anni di distanza dallo scampato pericolo della Crisi dei missili di Cuba, quando un’intera cultura si basava esclusivamente sulla lotta al comunismo, non è affatto scontato: solo una scheggia impazzita come Bixby poteva concepire un episodio in cui… due acerrimi nemici ridono in faccia a chi li vorrebbe vedersi uccidere.

Invece di fare la guerra… e fàteve ’na risata!

Chi mai oggi avrebbe il coraggio di mostrare un prodotto televisivo o filmico in cui l’eroe occidentale fa pace con soldati russi e ci si fa tutti una bella risata in faccia alla guerra?

Con tutti i suoi i difetti, leggerezze, moralismi e storture varie, comunque “Star Trek” è andata davvero dove nessuno è mai stato prima, come recitava la sigla.

L.

– Ultimi “viaggi astrali”:

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Le cinque chiavi del terrore (1965)


È il filone dei “corpi dissacrati” a cui ho dedicato più tempo, passione e studio, quello delle “mani cattive“, nel senso etimologico dell’aggettivo: mani “possedute”, ovviamente da entità maligne.

Ci sono mani che si stringono tra i banchi delle chiese alla domenica, mani ipocrite, mani che fan cose che non si raccontano, altrimenti le altre mani chissà cosa pensano (come cantava Frankie HI NRG nel 1997) e poi ci sono le mani cattive… che non hanno bisogno del fardello di un corpo umano a limitarle!


Parentesi
Alieni dalle mani cattive

«Chissà se è per questo che in italiano le fake news si chiamano “bufale”… del resto sono della stessa famiglia, no?»
Vasquez

Così la nostra amica Vasquez si spiegava lo stretto legame tra UFO e mucche, e proprio con due amanti imboscati di notte convinti di aver visto un UFO e invece era una mucca si apre Invasori dall’altro mondo (Invasion of the Saucer Men, 1957), uno dei film di serie B che giocavano con l’ossessione di moda per gli avvistamenti alieni.

L’RC Auto copre da sinistri con UFO?

Non sono riuscito a capire se questo film sia mai apparso in Italia prima che la Sinister Film lo portasse in DVD nel 2010, comunque ciò che conta è che la coppietta protagonista – un ragazzo e una ragazza che erano usciti in macchina pregustando una seratina frizzantina e invece vivono un’avventura “spaziale” – investe un alieno, mentre era distratta dalla mucca di cui sopra.

Cosa fai quando ti accorgi che hai schiacciato un omino verde? Mentre i due se lo chiedono, dal corpo dell’alieno si stacca la sua mano che prontamente snuda degli aculei che bucano le ruote della macchina, guidati dall’occhio montato sulla mano stessa. Mi sembra chiaro che siamo nella serie Z dove nessun buon gusto è mai stato prima.

Capolavori che meritano solo mani… in faccia!

Gran parte della vicenda verte sulla caccia a questa mano che si nasconde nell’auto dei giovani, in un film chiaramente parodistico dell’ossessione dell’epoca per gli UFO e i racconti di milioni di americani che nei cieli notturni hanno visto di tutto. Nella fantasiosa ossessione collettiva, ci sta bene una “mano mozza occhiuta”.

Occhio non vede, mano non duole…

Il film di Edward L. Cahn, tratto dal racconto The Cosmic Frame di Paul Fairman apparso su “Amazing Stories” nel maggio 1955 (in cui però non ho trovato mani mozze), usa una “mano cattiva” (anzi aliena) in maniera quasi comica, ma è il momento di tornare alle mani cattive “serie”.


Il pittore dalla mano assassina

In un’epoca d’oro per il nascente genere horror cinematografico come gli anni Sessanta una nuova casa cinematografica inglese come la Amicus ha gioco facile a sfruttare grandi attori in trame ammiccanti, tanto da fare concorrenza alla regina britannica Hammer.

Primo suo prodotto horror è questo Dr. Terror’s House of Horrors (1965) che, detto fra noi, se non fosse per il tris d’assi di grandi attori che sfoggia sarebbe ampiamente dimenticato da anni, invece è un piccolo titolo di culto. Quando arriva in Italia la censura lo prende a mazzate e neanche l’offerta di tagli gli evita il divieto ai minori di 18 anni, quando la Filmar lo porta nelle nostre sale dal 4 marzo 1966 con il titolo Le cinque chiavi del terrore.

Dal 1979 vive esclusivamente su piccoli canali locali poi viene riesumato nel 2002 da Pulp Video in DVD, poi ristampato nel 2018.

Dal passaggio del 9 settembre 2023 su SuperSix

«È arrivato Dracula!» Il film mette subito in chiaro che sono tempi in cui il doppiaggio italiano si prende parecchie libertà, come cambiare quasi tutti i nomi dei personaggi, “semplificandoli” (perché c’è una scuola di pensiero che crede gli spettatori dei dementi totali), ma soprattutto aggiungendo frasi come quella citata, detta in faccia a Christopher Lee solo nell’edizione italiana.

Questo è l’ultimo anno in cui il celebre attore è ancora un attore, con Dracula principe delle tenebre (1966) smetterà di muovere qualsiasi muscolo facciale… e già qui fa prove tecniche in tal senso.

Ecco come Christopher Lee ha affrontato il chiedergli sempre di fare Dracula

In un vagone ferroviario si incontrano cinque sconosciuti che si vedono salire a bordo il pittoresco dottor Shock, altra invenzione italiana per Dr. Terror, con il volto del mitico Peter Cushing: quando si siede, è delizioso il colpo d’occhio a Lee!

L’eterno Van Helsing ammicca all’eterno Dracula

Esperto in «scienze metafisiche», il dottor Shock intriga i viaggiatori con i suoi tarocchi, che però il doppiaggio italiano è convinto siano ignoti agli spettatori (ma per davvero???) e così l’originale «tarot cards» diventa «le carte delle streghe». E va be’, è il miglior doppiaggio del mondo…

Per il divertimento generale, che man mano diventa raccapriccio, il dottor Shock inizia a leggere nei tarocchi il futuro di ognuno dei cinque viaggiatori, un’occasione per raccontare cinque storie dell’orrore che tocchino vari temi tipici del genere.

Avete il coraggio di farvi fare i tarocchi dal dottor Shock?

Il primo viaggiatore è Jim Dawson (Neil McCallum), architetto che si recherà nell’antica villa di famiglia per dei lavori di ristrutturazione, in cui scoprirà sepolta in cantina la tomba di Cosmo, un antico lupo mannaro cacciato e ucciso dai suoi avi, e la spada usata per colpirlo poi fusa in un crocifisso: da quell’oggetto d’argento Dawson creerà pallottole d’argento per affrontare l’antico licantropo redivivo.

Il secondo passeggero, Bill Rogers (Alan Freeman), tornerà a casa e troverà intorno alla sua abitazione una pianta dal comportamento anomalo… e letale.
Il terzo passeggero, il musicista Biff Bailey (Roy Castle), durante un ingaggio in un’isola tropicale si innamora della musica voodoo e decide di adattarla per farsene bello in patria, malgrado uno stregone gli abbia spiegato che questo farà infuriare il dio voodoo: il musicista non segue il consiglio… e mal gliene incorre.
Il quinto ed ultimo passeggero, l’americano dottor Carroll (Donald Sutherland), porta la moglie britannica negli Stati Uniti, dove inizia a curare strani casi che sembrerebbero essere spiegati con il vampirismo: perché sua moglie risulta sensibile all’argomento?

Lo sceneggiatore Milton Subotsky scrive storielle di straordinaria inconsistenza, forse per la brevissima durata dei vari episodi o forse per non entrare mai davvero in situazioni troppo spaventose, comunque non vale la pena perder tempo su temini scolastici a base horror privi di qualsiasi interesse.

Ciò che conta qui è il quarto passeggero.

Ora sta a te giocare questa… mano!

Christopher Lee si cala nei panni del celebre critico d’arte Frank Marsh, un tronfio pieno di sé abituato a stroncare i pittori più che a incensarli, perché il critico che conquista i salotti buoni è il “critica-tutto”.

Dopo aver insultato Eric Landor (Michael Gough), il pittore gli tira un perfido scherzo: rivela che uno dei pochi quadri elogiati da Marsh è stato in realtà dipinto da una scimmia, il che getta discredito sul critico, così umiliato da spingersi a investire il pittore con l’auto per vendicarsi. Landor non muore ma perde la mano destra, che è peggio: disperato, si uccide.

In realtà si può dipingere benissimo senza mano, ma abbiamo capito il concetto

Come sempre, gli autori non stanno a infognarsi nel dare spiegazioni del perché una mano mozza prenda vita propria, basti sapere che il rancore del pittore passa alla sua mano che inizia a vendicarsi del critico trita-tutto.

Marsh dovrà affrontare il “mostro dalle cinque dita” finché crederà di averlo sconfitto, gettandolo nel fuoco, ma gli strani fenomeni che lo ossessionano continuano, e nasce un dubbio: che siano le sue stesse mani a trarlo in inganno?

E se fossero le mani del critico le vere colpevoli?

Come dicevo, sono gli ultimi anni in cui Lee recita e qui ci regala un personaggio delizioso: prima si diverte un mondo nel fare il critico tronfio, poi ci regala l’ossessione crescente di chi non sa se stia impazzendo o se davvero abbia una mano mozza che cerca di ucciderlo.

Ogni tanto guardare in terra, non sapete mai cosa si stia avvicinando

Onestamente questo episodio è l’unico che salva il film, temo ormai troppo datato anche se la qualità tecnica è ottima, decisamente migliore della qualità delle varie sceneggiature, semplicistiche se non addirittura sempliciotte. Diciamo che è un film horror perfetto per chi all’epoca non vedeva film horror.

Vieni nel Lato Oscuro della serie Z, Christopher!

Christopher Lee si unisce al novero degli attori che si sono agitati davanti a una cinepresa stringendo una mano finta appesa al loro collo: nessuno lo ricorda mai quando si scrivono lodi sbrodolate sull’attore. Ma questa è la narrativa delle “mani cattive”: ignota ai più, perché le mani assassine amano aggirarsi non viste.

L.

Mi sia consentito questo spazio di becera auto-promozione, visto che proprio dieci anni fa il fascino delle «mani cattive» mi ha pervaso a tal punto da scrivere il mio primo ed unico romanzo: Le mani di Madian.
Qualcuno sta uccidendo delle traduttrici mentre uno scrittore di successo afferma che la propria mano destra… non è la sua! I due casi sono uniti da una mano misteriosa che affonda le radici in citazioni letterarie che solo l’investigatore bibliofilo Marlowe (no, non quel Marlowe) saprà cogliere.
Capite che in questo ciclo non potevo resistere a questo pizzico di pubblicità. Il romanzo lo trovate in tutti gli eStore a soli 99 centesimi.

– Ultimi “corpi dissacrati”:

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Nome in codice: Picasso Trigger (1988)


Siamo ormai nel mondo dell’invisibile, serve il microscopio elettronico per scorgere tracce di distribuzione italiana di questo Picasso Trigger (1988), inedito in TV e arrivato nelle nostre videoteche per Columbia TriStar (addirittura!) nel marzo del 1990 con il titolo Nome in codice: Picasso Trigger: i nostri distributori l’avevano capito che è il seguito di Agguato alle Hawaii (1987), uscito l’anno prima da noi?

Quei pochi che citano questo film, nei dizionari di cinema americani con abbastanza coraggio da affacciarsi alla serie Z più spernacchiona, lo fanno solo per sottolineare la totale follia di Andy Sidaris, che a un certo punto nella seconda metà degli anni Ottanta ha iniziato a costruirsi una personale mythology, una sorta di Sidaris-verse fatto di artisti marziali pazzi, bonazze armate, esplosioni e amene località hawaiiane. Trovarci anche una trama in tutto questo è impresa inutile.

L’universo cinematico in cui nessuno vuole entrare

Con Malibu Express (1985) Sidaris si è affidato a uno spunto consolidato che in videoteca e in TV funziona sempre: l’eroe muscolare che mena e spara e nelle pause si spupazza qualche donnina poco vestita, poi però l’autore (va be’, “autore” mi sembra esagerato…) deve aver annusato l’aria del cambiamento e con Agguato alle Hawaii (1987) si è dimostrato molto lungimirante nel mostrare donne armate, grintose, indipendenti e non costrette a spogliarsi in ogni scena. Questo Picasso Trigger dimostra che non è stata una scelta consapevole ma solo un inciampo casuale.

Se in Francia la stella del cinema erotico Brigitte Lahaie diventava “donna armata” per L’esecutrice (1986), così nelle Hawaii di Sidaris Dona Speir (Playmate del marzo 1984) e Hope Marie Carlton (Playmate del luglio 1985), cioè due modelle di Playboy allergiche ai vestiti, diventavano grintose agenti armate. Sidaris ha capito cosa sta covando sotto i maschilisti anni Ottanta? No, proprio per niente.

Che triste fine, per due grintose agenti armate di Maui

Le agenti Donna e Taryn qui si vedono cancellato tutto il “progresso” del precedente film e si ritrovano ballerine che agitano le pistolette sul palco in uno spettacolino sècsi di dubbio gusto, e una volta scese dal palco passano da una doccia a un letto in rapide sequenze, sempre nude mentre si contorcono al rallentatore: chiaro segno che l’anticipazione mostrata da Agguato alle Hawaii era assolutamente casuale, Sidaris è il tipico “autore anni Ottanta” fedele a quel tipo di storie che Leo Ortolani ci ha spiegato con la tripla A: Azione, Amore, Atette.

Nella folle mythology di Sidaris in questo film c’è un cattivo che vuole vendicare il cattivo ucciso in Agguato alle Hawaii e così i nostri eroi – che tornano tutti, tranne Ron Moss – devono affrontare un nuovo pericolo. Mentre Jade (Harold Diamond) fa le sue cose marziali a casaccio facendo facce da pazzo, intanto le nostre eroine Donna e Taryn aspettano che inizi una trama, e nel frattempo si spogliano. Solo per scoprire che è tutta lì la trama.

Fammi vedere la trama!

Anche dal punto di vista delle armi Sidaris fa un grande passo indietro: ogni simbolismo del precedente film è scomparso, il regista ha lo stesso “parco armi” ma nessuna sembra più messa lì con un senso.

Giusto da segnalare Pantera (Roberta Vasquez) che monta e usa un curioso fucile Armalite AR-7

… ma soprattutto Edy (Cynthia Brimhall) spara con una mitraglietta Sterling Mk. IV

… modificata esattamente come in Star Wars

… essendo infatti l’arma che fa da base per il blaster degli Stormtroopers.

Questo è l’unico guizzo simpatico che Sidaris dedica alle armi, quando invece nel precedente film era stato molto più illuminato.

Picasso Trigger è la dimostrazione che le “mode” non sono uniforme e dirette in una direzione, i semi degli anni Settanta sono sparsi a caso e a volte attecchiscono a volte trovano terreno arido. Le idee che Sidaris sembrava aver colto qui vengono del tutto spazzate via: l’autore aveva avuto un riscontro tale per cui si era convinto che il popolo delle videoteche non amava le donne armate? Chissà.

Siamo in anni in cui una donna armata era giunta fino all’inconcepibile, cioè una nomination all’Oscar: quel 30 marzo 1987 in gara c’erano drammoni con grandi attrici… e Ripley che sparava agli xenomorfi con un pulse rifle. Ovvio che a vincere è stata la sordomuta di un romantichello – quel manuale di cinema che è Tropical Thunder (2008) ci ha spiegato il perché – ma il fatto stesso che un’eroina d’azione sia arrivata nel tempio del dramma autoriale fa capire che tipo di esplosione ci fosse in corso.
Esplosione che Sidaris non ha sentito, e ha continuato a far spogliare le sue due modelle di Playboy. Per carità, erano gli anni giusti per farlo, ma il suo precedente film ci aveva fatto sperare in un autore più ispirato.

Avrò il coraggio di proseguire nel folle Sidaris-verse? Lo scopriremo la settimana prossima.

L.

P.S.
Il film lo trovate completo su YouTube, in ottima qualità ma solo in lingua inglese.

– Ultime donne toste:

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Amusement (2008) Giochi pericol(noi)osi


Ormai da anni Italia2 nei nostri cuori è diventata la Italia1 dei tempi d’oro, quella che in prima serata verso la fine della settimana ti mandava in onda i peggio horroracci in circolazione spacciandoteli per grandi prime visioni, con la differenza che all’epoca la peggior serie Z sarebbe oggi la serie A. Quindi il giovedì sera è una giornata che aspetto sempre con quel brividino che nasce dalla domanda: “Che porcata horror irresistibile ci regalerà Italia2?”

Lo scorso giovedì 2 maggio 2024 è toccato ad Amusement. Giochi pericolosi (2008), che in quanto a porcata non lo frega nessuno. Però è inedito in home video quindi l’essere reperibile solo in TV lo rende ancora più chiccoso.

Nota: scopro solo all’ultimo secondo di aver già recensito questo film nel 2019, avendone perso totalmente ogni memoria: ormai è tardi per cambiare pianificazione quindi vi beccate la doppia recensione, a testimonianza della totale nullità di questo titolo.

Come resistere al “giovedì horror” di Italia2?

Mi immagino il registino John Simpson che rapisce lo sceneggiatore Jake Wade Wall, subito dopo aver osato firmare The Hitcher (2007), cioè l’impresentabile rifacimento di un grande classico, e mentre lo tiene legato in cantina lo tortura raccontandogli il film che ha in mente: una serie di episodi autoconclusivi totalmente privi di spessore e di senso, che però messi insieme formano un arazzo di follia e una storia unica, tenuta insieme da pura cialtronaggine umidiccia.

Per salvarsi la vita Wall scrive le idee malate di Simpson, il quale poi vende tutto alla New Line Cinema, che tanto sono abituati a cose inadatte alla vita umana perciò una più o in meno non fa differenza.

Siete pronti per un viaggio di pura follia cialtronesca?

Lui e lei viaggiano di notte in autostrada e lui le spiega che non può andare più piano perché è entrato in un “convoglio”. Sarò strano io, ma non avevo mai sentito parlare di questa pratica, per la quale se sei in autostrada d’un tratto cominci ad andare alla stessa velocità di chi ti sta davanti, fino a formare un convoglio di gente che non può più né accelerare né rallentare perché si è formata una colonna unica di macchine.

Boh, io sono di Roma, sono cresciuto in una cultura che non ammette altra macchina all’infuori della propria, se quello davanti a me va a una velocità diversa la prassi è insultarlo a morte, e se anche andasse a 300 all’ora lo dovrei superare perché così impone il Codice romano della strada.

Mentre lui segue regole stradali esistenti solo nella sua testa, lei nota una donna rapita nel furgone avanti a loro, poi colpo di scena e via, tutti morti, è stato un episodio ai confini della realtà ma soprattutto del buon gusto.

Vi è piaciuto l’episodio? Sappiate che andrà peggio…

C’è Tabitha (Katheryn Winnick) che fa la babysitter… Ah ma quindi è ufficiale, la storia dei due tizi in auto finisce davvero così? Non ha peso nella vicenda? Ma cos’è, un film a episodi? Boh.

Comunque Tabitha fa la babysitha e non apre mica la porta a un tizio inquietante che la aspetta sotto la pioggia vestito da maniaco omicida, lei la porta la apre sì ma solo per dirgli che non la apre, che è tipo telefonare a un gruppo di amici che non ti ha invitato a una festa per dire loro che tanto non volevate venire.

La particolarità della casa in cui Tabitha fa la babysitha è che è entrata nel Guinness dei Primati per percentuale di pagliacci per metro quadro, contando ovviamente anche il regista e lo sceneggiatore.

Tanti pagliacci, qui, sia davanti che dietro la cinepresa

Un film horror in cui una babysitter si aggira di notte in una casa piena di clown inquietanti: è ovvio che sia una barzelletta, una parodia dei più beceri stereotipi del genere, non può essere una cosa seria, visto poi che Tabitha la babysitha sale le scale e scende le scale, cioè il kung fu basico dell’horror.

Per fortuna arriva un pagliaccio assassino a mettere fine anche a questo episodio: non sono riuscito a capire se quel pagliaccio sia il regista o lo sceneggiatore.

In effetti la maschera mette paura, ma mai quanto la sceneggiatura

Lui e lei sono davanti a un manicomio abbandonato e lei convince lui a entrare per fare cose senza senso di cui non vale parlarne, tanto sono entrambi carne morta: il livello di buffonaggine di questi episodi è troppo imbarazzante, l’unica cosa buona è che muoiono tutti, almeno lo spettatore è vendicato.

Poi si comincia ad intravvedere una trama comune, si capisce che c’è un filo conduttore e torna Tabitha la babysitha, e scopriamo che in tutte le scenette c’è un tizio che non vediamo in faccia: è chiaro che sia lo sceneggiatore, che si vergogna troppo.

Comunque una cosa è chiara: c’è un filo che cuce male tutte queste brutte storie, un filo da cui i personaggi gridano aiuto cercando di fuggire da questo filmaccio.

La scena simbolo di quanto siano cuciti malamente insieme i vari episodi

L’assenza di trama come scelta narrativa e l’assenza di buon gusto come cifra stilistica sono entrambi scelte che fanno gioire del fatto che il regista non lavori più in questo campo, malgrado questo inutile Amusement abbia un’ottima fotografia ed un’ottima visione scenica, oltre al fatto che la scena finale – cioè il motivo che unisce insieme tutte le inutili scenette precedenti – ha un’idea di fondo molo buona, nel suo essere truculenta, ma la somma delle parti qui dà zero tondo come risultato.

Una secchiata di personaggi uccisi senza motivo e con tanta noia non crea quel clima giusto per il gran finale, quindi gli autori non fanno che spararsi sui piedi in ogni istante del film, rovinandosi da soli le buone idee che hanno sepolto sotto scelte ridicole.

Lo stesso ringrazio Italia2 per un altro “giovedì horror” di lanosa cialtronaggine: mi fa tornare giovane, ai tempi della mitica Italia1 con i filmacci spacciati per capolavori.

L.

– Ultimi horror da Italia2:

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[Malastrana] Two Crippled Heroes (1982)

Continua la rubrica mensile in cui Andrea K. Lanza (del blog Malastrana) ci racconta delle sue scorribande filmiche.



Two Crippled Heroes
(殘缺雙雄 / Crippled Masters 2: Two Crippled Heroes, 1982)

Uno dei film sicuramente più incredibili della bruceploitation è Il colpo maestro di Bruce Lee (1979). Cioè una finta bruceploitation: il Bruce Lee del titolo è pura invenzione della distribuzione italiana, che ci infila dentro pure una storia che rimanda proprio al Piccolo Drago.

天殘地缺 (Tian can di que, conosciuto con il titolo internazionale di The Crippled Masters) è un buon kung fu movie, un bizzarro film di arti marziali con due protagonisti invalidi, un focomelico dalle braccia piccolissime e un ragazzo dalle gambe atrofizzate. In mezzo a tanti scontri impreziositi dalle doti atletiche dei due, velocissimi e letali, con un’idea di combattimenti ridanciani un po’ alla Jackie Chan. In più Shun Chung-Chuen e Thomas Hong Chiu-Ming hanno una bella alchimia tra di loro, risultano simpatici tanto da rendere in secondo piano il loro evidente handicap.

Chi Lo, regista di un gagliardo Io sono Bruce Lee la tigre ruggente (1973), è la scelta giusta di un film rozzo ma efficace, divertente anche quando cerca, perlomeno all’inizio, la strada del kung fu più barbaro e sanguinoso con sangue e torture.

Dall’Archivio Marziale Etrusco: registrazione del 1° maggio 2003 su Europa7

Coppia che vince non si cambia e i due torneranno, in storie non collegate, anche in Two Crippled Heroes (殘缺雙雄, Can que shuang xiong), di un anno dopo, e in The Crippled Masters 3: Fighting Life (奇巧人物, Ji qiao ren wu, 1981), diretti rispettivamente da Yao Hsiao e da Chung Kuang Wang. Dei tre il peggiore e più stanco è quest’ultimo, mentre il secondo ha più di un motivo d’interesse. Ovviamente in Italia nessuno ha pensato a un Il colpo maestro di Bruce Lee 2 o 3.

Grazie al sempre mitico canale YouTube Wu Tang Collection

Two Crippled Heroes inizia fin da subito in maniera spensierata, si scrolla di dosso la patina da tragedia e non perde tempo a cercare facili patetismi nelle disabilità dei suoi due eroi: li getta in scena in divertenti combattimenti che ricordano come tempi comici i migliori Jerry Lewis/Dean Martin, come I figli del secolo (1953) o Occhio alla palla (1953). La sceneggiatura piazza pure una molesta scimmia dispettosa ma, Dio benedica il crudele dio del kung fu, la elimina quasi subito con tanto rammarico e lacrime da parte dei due protagonisti, ma zero rimpianto dello spettatore più cinico. D’altronde le scimmie amabili sono merce rara e, per chi è cresciuto a pane a Phoebe Cates come il sottoscritto, ha ancora gli incubi pensando al quadrumane erotomane di Paradise, immenso (non) capolavoro degli anni Ottanta.

Stavolta a rendere più movimentato il rapporto tra i due si metterà pure una donna, una ragazza momentaneamente cieca dopo aver ascoltato casualmente i piani malvagi del cattivo di turno. Questo, in un’ottica di cinema popolare, significa ovviamente tanti agguati che i protagonisti, innamorati della nuova arrivata, dovranno fronteggiare, e l’apertura verso gag comiche atte a evitare la scoperta della loro disabilità.

Siamo quasi in un proto John Woo con Yao Hsiao e Chung Kuang Wang che anticipano Chow Yun Fat/Danny Lee, Dumbo/Topolino, intenti in duelli omicidi mentre una bella cieca li crede amici del cuore. Prendiamo questa formula che in The Killer (1989) punta alla tragedia assoluta e spostiamo l’asse verso la commedia slapstick con innesti di kung fu acrobatico impossibile e nonsense.

Due amici che passano la giornata a menarsi

Yao Hsiao non vale il Chi Lo del precedente film, si limita a riprendere le incredibili lotte a un passo dal cartoon alla Hanna & Barbera; la sua regia, inerme e senza guizzi, esalta però ancor di più un veicolo creato per questa strana coppia di eroi.

Il film dopo, The Crippled Masters 3: Fighting Life, purtroppo non avrà né l’alchimia agrodolce tra truce e comico de Il colpo maestro di Bruce Lee né la follia scherzosa di Two Crippled Heroes, perdendosi in un limbo di negligenza narrativa e di inerzia visiva.

Noi vi consigliamo di recuperarli comunque tutti e tre perché, ci ricorda il sommo De André, «se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo» ovvero tradotto in kungfuese «Anche il più brutto Crippled Heroes merita uno sguardo». E tu via, scimmia maledetta!!!

Andrea K. Lanza


P.S.
Ringrazio Andrea per la disponibilità e a fra un mese per la nuova puntata della sua rubrica.

L.

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