36th Chamber of Shaolin (1978) Apologia di rivolta!


Mi sembra di essere Doctor Who (che ho ricominciato a vedere su Prime Video) ad apparire in momenti vari della storia cinese passata per poi cercar di capire cosa stia succedendo. Stavolta però la missione è difficile, perché potrei essere finito in un momento qualsiasi in un arco temporale di quasi tre secoli!

L’unica certezza è di essere finiti nel mito dei miti: il Tempio di Shaolin, con le sue trentacinque stanze, e sono arrivato proprio quando ne stanno per aggiungere una, interamente dedicata all’addestramento alla rivolta politica.


Il DVD

Stando al consueto HKMDb, 少林卅六房 esce nei cinema di Hong Kong il 2 febbraio 1978, targato Shaw Bros: viene distribuito a livello internazionale come The 36th Chamber of Shaolin o Master Killer.

Non esistono prove che sia mai uscito in Italia, prima che la AVO Film nel 2007 (cioè negli ultimi suoi aneliti di vita) doppi e distribuisca in DVD la splendida rimasterizzazione della Celestial Pictures, con il titolo La 36ª camera dello Shaolin.

Il video è nel consueto formato 2.35:1 widescreen e l’audio è italiano (2.0 e 5.1) e cinese mandarino (mono). Il tutto arricchito con simpatici contenuti speciali.

Il film lo trovate anche in alta risoluzione nel catalogo di Prime Video.


La Storia e la Finzione

Con il nuovo anno rispolvero una gloriosa rubrica, virandola in chiave marziale.

Quando si svolgono gli eventi di questo film? Bella domanda. Di sicuro siamo in uno di quei momenti storici che mettono in imbarazzo gli studiosi, perché a seconda del momento storico-politico vengono giudicati buoni o cattivi a giorni alterni.

Quand’è che un impero vasto quanto l’Asia è positivo? Noi europei, con la nostra cultura della finanza, potremmo dire che se un impero è florido, la sua economia è forte, i suoi commerci fruttuosi, le sue città ricche, allora be’, per noi merita il bollino di “positivo”, come notavano i viaggiatori, mercanti e ambasciatori europei quando nel Settecento viaggiavano fino in Cina, durante la Dinastia Qing. Aggiungiamo che questa dinastia è durata dal 1644 al 1911, quasi trecento anni, e allora andiamo, per forza di cose un impero così durevole è da vedere con favore.

«Nel XVIII secolo, i viaggiatori e gli scrittori stranieri descrivevano la Cina come lo Stato più prospero e meglio governato della terra. Forse avevano ragione. La dinastia durò 267 anni. Nella fase centrale di quel periodo, con oltre un quarto della popolazione mondiale, e sotto tre grandi imperatori, la Cina raggiunse il suo massimo livello di successo materiale e di stabilità politica prima del fatale confronto con l’Occidente.»

Così mi spiega Michael Wood nel suo saggio La storia della Cina. Ritratto di una civiltà millenaria (2020; Mondadori 2022), sottolineando come l’Illuminismo europeo trovava riscontro anche in Cina: «banche, corporazioni commerciali, istituzioni benefiche, ampio accesso all’istruzione, circoli scientifici e letterari. Fu un’epoca di straordinaria ricchezza nelle arti, nella poesia e nel romanzo, e nella letteratura femminile», perché in questo periodo c’è un fiorire di poetesse. Come si fa a parlar male dei Qing? Eppure i loro sudditi ci riuscivano benissimo.

Perché i Qing erano stranieri, erano Manciù, erano tartari, quindi per i cinesi erano solo altri stranieri che venivano a dettare legge a casa loro. Così scriveva il poeta Zhang Dai nel 1671:

«Ho vissuto come un inquilino in casa d’altri per ventitré anni ormai. Quando avevo cinquant’anni il mio paese era in pezzi e io mi rifugiai tra le montagne. Fin dal 1644 ho vissuto come inebetito. Ripensandoci, quei giorni di due decenni fa mi sembra siano appartenuti a un’altra incarnazione. È come se la mia vita nell’epoca Ming fosse stata un sogno.»

Tutta la maestosità che l’impero cinese ha raggiunto dal Seicento in poi non ha mai contato nulla per il popolo, che per i 267 anni della durata della dinastia Qing ha complottato, si è rivoltato e ha lottato al grido di un’unica parola d’ordine: «Restaurare i Ming». Questo film parla della rivolta popolare contro i Qing, come si fa dunque a capire quando si svolge?

L’unico riferimento storico preciso del film

Per fortuna ci viene in soccorso la scena in cui il perfido generale Tien Ta fa riferimento a un «famigerato editto di Zheng Chenggong», così da darci finalmente un seppur vago riferimento temporale, che posso studiare grazie al saggio Political Warfare (2020) di Kerry K. Gershaneck. Si tratta infatti di un noto ribelle (chiamato anche Koxinga, non so perché) che in quella seconda metà del Seicento in cui i Manciù stavano conquistando ogni parte della Cina organizzava gruppi di ribelli, appoggiandosi anche alla libera Taiwan: proprio per questo i Manciù nel 1684 conquistano l’isola, così da togliere una base sicura ai vari movimenti rivoltosi.

Da questo particolare si capiscono i riferimenti a Canton, città portuale in cui troviamo il protagonista, e in cui i ribelli cercano di unirsi ai rivoltosi di stanza a Taiwan, e visto che Zheng viene dato per vivente direi che siamo proprio nella seconda metà del Seicento, prima di quel 1684 in cui cadrà Taiwan.

Come visto, il più grande impero unitario della storia umana ha resistito per quasi tre secoli alle continue rivolte interne, sètte segrete e logge massoniche varie, ma è crollato miseramente davanti al più spietato virus mai apparso sul pianeta: gli europei.

Contatti con il “virus” c’erano stati da secoli, già in quel Seicento, eppure i cinesi non erano riusciti a vaccinarsi: nell’Ottocento il nanyang – cioè quella parte di mare che va da Taiwan alle Filippine e al Vietnam – viene preso di mira dagli europei per le loro guerre commerciali, culturali e d’invasione. Come abbiamo visto, la rivolta dei Boxer sarà la goccia finale perché gli europei in armi (più russi e giapponesi, tanto per gradire) distruggano l’impero più grande della storia.

Saranno stati contenti i rivoltosi, i partigiani, i settari e carbonari cinesi vari, una volta che finalmente lo straniero Manciù è caduto? Sono razzista se dico che gli europei sono parecchio più stranieri rispetto ai tartari? Chissà, magari i rivoltosi avranno avuto tempo di rimpiangere la dinastia Qing, visto che il Novecento non è stato proprio un bel secolo per la Cina.

Ancora nel 1978 di questo film l’idea è che i Manciù della dinastia Qing siano bestie selvagge che massacrano la povera gente e detengono il potere con la forza: tutto vero, ma sotto il loro regno la Cina è diventata l’impero più grande della storia umana, e non sarà mai più così ricca, florida e prospera. Perciò chiudo tornando al Dottore, che nell’episodio 3×04 (Daleks in Manhattan, 2007) appare nella New York del 1930 dove stanno costruendo l’Empire State Building, l’edificio più grande del mondo, mentre intorno la gente muore di fame nelle baraccopoli: così si costruisce un impero, guardando in alto e fregandosene di chi sta in basso.


Il film

Dopo che Tarantino gli ha fatto fare una comparsata in Kill Bill (2003), e fatto persino indossare la «maschera alla Kato» (che non c’entra una mazza), tutti in Italia a dire che Gordon Liu è il meglio amico loro: peccato che essendo completamente inedito da noi tutta questa sedicente familiarità con l’attore è solo frutto di tarantinite acuta.

Personalmente il mio primo incontro con Liu Chia-Hui, noto all’estero come Gordon Liu, l’ho avuto con Cinema of Vengeance (1994), splendido documentario che comprai in VHS in lingua originale proprio quel 1994, grazie al fatto che frequentavo una libreria Feltrinelli di Roma che aveva anche del materiale d’importazione. Ho consumato quella videocassetta, perché mostrava scene di film che mi era impossibile recuperare all’epoca, e mi colpì subito il “pelato che mena”, cioè il monaco San Te che ha regalato eterna fama all’attore. (Nel 2002 la Passworld ha portato il documentario in DVD italiano con il titolo Le furie del cinema.)

Ecco come ho conosciuto Gordon Liu, imbalsamato nel suo unico ruolo famoso

Alla regia ma soprattutto alla coreografia troviamo un maestro come Lau Kar-Leung (noto anche come Liu Chia-Liang), molto poco conosciuto pure lui in Italia ma una colonna portante del cinema marziale: purtroppo i suoi film sono gioielli di qualità, perciò non interessavano ai distributori italiani, in cerca esclusivamente di letame fumante. Tra parentesi, è fratello adottivo di Gordon Liu!

Due fratelli marziali, uno dei quali ha un cappello della Pirelli!

Sarebbe bello scoprire se lo sceneggiatore Ni Kuang, o magari il regista stesso, abbia voluto coscientemente andare in controtendenza, prendere cioè il tema tipico del cinema dell’epoca, l’eroe che si allena nel tempio di Shaolin, ma dando al tutto una valenza molto più politica, comunque il gioco è presto fatto: si prende un filone di moda e lo si arricchisce di valori morali.

Preparatevi ad entrare nel Tempio della Ribellione!

Siamo nei primi anni della dominazione Manciù e i cattivissimi tartari spadroneggiano massacrando i poveri cinesi inermi: per capire quanto siano infami i Manciù, qui chiamati tartari, basta dire che il generale Tien Ta è interpretato dal parrucchino di Lo Lieh, quello che con le sue cinque dita di violenza aveva sdoganato il genere marziale in Italia.

Perché non mi sono tenuto in tasca quelle cinque dita di violenza?

Il citato saggio di Wood mi spiega che per cercare di sedare le continue rivolte popolari i Manciù cercarono (e trovarono) l’approvazione degli intellettuali, in modo che educassero la popolazione a sottostare alle nuove leggi. Qui invece è proprio da un maestro di scuola che nasce il seme della rivolta, piantato nei giovani cuori degli studenti, che proprio non vogliono chinare il capo al nemico oppressore.

Giovani petti pronti ad immolarsi contro le barbarie nemiche

Stiamo parlando di popolazione civile, contadini, pescatori e via dicendo, non ci sono strumenti di rivolta se non la propria rabbia: sarebbe bello se i monaci guerrieri del Tempio di Shaolin, esperti di kung fu, li aiutassero nella rivolta addestrando gli uomini. Ma è noto che i monaci non si interessano di politica, chiunque sia al potere.

«Se gli Shaolin insegnassero il kung fu a molti più uomini, anche laici, sarebbero in grado di combattere contro i tartari e ciò sarebbe fantastico.»

Quando il giovane Liu Yu-de si ritrova ad essere l’unico sopravvissuto della sua “cellula”, malmenato e ferito, non trova altro da fare se non chiedere ospitalità al Tempio di Shaolin, prendendo il nome di San Te. Può aver perso i capelli ma non il vizio: lui non è lì per l’elevazione spirituale o religiosa, lui è lì per addestrarsi così da diventare forte abbastanza per affrontare i Manciù.

Ogni addestramento marziale nasce dalla rasatura a zero

Il cuore del film è pura scuola Shaw Bros, con l’eroe che affronta una prova dietro l’altra, diventando sempre più forte e, quasi a propria insaputa, rafforzando la propria forza interiore e morale. Per sfidare l’avversario più forte San Te ricorre al nunchaku a tre sezioni: «un attrezzo che ha inventato lui stesso».

Dubito fortemente che il doppiaggio italiano sia stato fatto traducendo dall’originale cinese, molto più facile che sia stata usata la versione inglese, e allora perché tradurre weapon, “arma”, con «attrezzo»? È un doppiaggio pacifista? E perché tradurre «he made himself», “si è costruito da solo”, con «ha inventato lui stesso»? Do per scontato che i traduttori italiani non sappiano niente di armi cinesi, ma la frase mi sembra abbastanza chiara per non dare adito a dubbi.

Non ti abbastava il nunchaku a due sezioni, eh?

Fermo restando che del nunchaku non si sa niente, ma proprio niente di niente, quindi ognuno può citare leggendarie origini tanto non ci sono prove quindi vale tutto, è chiaro che non può essere stato il nostro seicentesco monaco San Te ad averlo inventato, visto che Toshio Tamano (De Vecchi 1992) mi spiega che quell’arma che noi oggi chiamiamo nunchaku deriverebbe proprio da un’arma a tre sezioni creata in Cina nel settimo secolo, quindi una millata di anni prima del bravo San Te. George R. Parulski (1984) specifica che quell’arma a tre sezioni (so-gee) è poi stata importata in Giappone nel XV secolo iniziando a dare vita a quel nunchaku esploso nell’immaginario collettivo grazie ai film di Bruce Lee, che ne usava la versione cinese (cioè dai bordi arrotondati).

Ho aperto questa parentesi perché il regista Lau Kar-Leung nei suoi film ha sempre posto attenzione alle armi tipiche della storia cinese, perciò i suoi combattimenti all’arma bianca sono di solito più intriganti rispetto alla produzione coetanea, perché entrano in scena armi inusuali per il cinema ma facenti parte della tradizione locale.

L’anno prima Gordon Liu l’aveva già usato in Heroes of the East (1978)

Diventato monaco Shaolin, San Te ha diritto a sovrintendere a una delle trentacinque stanze del monastero, quella che preferisce: la sua scelta dimostra che malgrado siano passati sette anni non ha rinunciato ai suoi propositi, così ne inaugura una trentaseiesima. Una stanza “politicizzata” dove addestrare i ribelli, una volta scelti gli elementi migliori in giro. Tremate, Manciù, avete… i secoli contati!

Lau Kar-Leung di sicuro aveva uno spiccato senso patriottico con cui condiva i propri film, ma non è chiaro come mai abbia scelto un periodo storico così implausibile: è chiaro che San Te non riuscirà mai nella sua impresa di costituire un esercito di ribelli per scacciare i Manciù, ma forse è proprio il fascino delle missioni impossibili ad averlo guidato nella scelta.

Il film diventa subito iconico e per forza di cose genera seguiti, che vedremo le settimane prossime.

L.

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28 risposte a 36th Chamber of Shaolin (1978) Apologia di rivolta!

  1. Cassidy ha detto:

    Oh che bellezza! Non solo questo film è uno dei miei preferiti, allafaccia dei Tarantiniani pappagalli che ripetono parole che hanno sentito, ma poi condito da tutto questo Doctor Who, gran modo per iniziare la settimana 😉 Ancora meglio sapendo che arriveranno anche i seguiti! Cheers

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  2. Willy l'Orbo ha detto:

    Storia, arti marziali e film…dove trovi un connubio così stuzzicante? Solo sulle pagine zinefile! (sembra un annuncio pubblicitario ma vorrebbe essere un elogio! 🙂 ) 🙂

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  3. loscalzo1979 ha detto:

    “Voglio la 36° stanza”
    “Ma ne abbiamo 35”
    “HO DETTO TRENTASEISIMA”

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  4. Giuseppe ha detto:

    Impeccabile analisi storico-critica (e, giustamente, critica nei confronti di una miope visione “economico-centrica” della Storia), marzialità, misteri del Nunchaku, cinema: il tutto condito dall’aggiunta di un ulteriore tocco di classe Gallifreyano 😉
    Tra l’altro, non potevi scegliere un abbinamento migliore: il TARDIS, infatti, ha la capacità di creare copie di backup degli ambienti di ogni precedente rigenerazione, ragion per cui il suo numero di stanze interne può rivaleggiare facilmente con quello del monastero Shaolin 😉
    P.S. Anche il Buon Vecchio Zio Marty ha avuto a che fare con le 36 stanze ne “Gli assassini del kung-fu”…

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  5. Lorenzo ha detto:

    Io come al solito sono monotematico e avevo letto “Delta Force – The Killing Game”, pensavo ne avessi fatto una terza recensione 😀

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  6. stefanoramarro ha detto:

    In preda ad una follia marziale acquistai questo ed un altro dvd sul tema shaolin di cui non ricordo il nome (forse ritorno alla 36ma camera? La 34ma? boh). Purtroppo ricordo solo i fiati del doppiaggio (uà, oh, tà oppallà). Devo dire che hai buttato molta carne al fuoco e mi è venuta voglia di rivederlo tenendo conto di tutto quel sottotesto che ignoravo e che qui hai presentato. Cowabunga!

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      Sono film ottimi che meritano sempre una visione, se poi hai Prime Video ce l’hai pure in alta definizione 😉
      Visto che c’è parecchio sangue marziale in te sicuramente apprezzerai l’addestramento di San Te, un tipico “shaolin movie” dell’epoca ma sicuramente con qualcosa in più, oltre ad avere un protagonista in splendida forma e un regista già maestro del genere 😉

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      • stefanoramarro ha detto:

        Sono andato a frugare nella mia sterminata videoteca e ho ritrovato i due dvd. Il secondo era effettivamente “ritorno alla 36ma camera” di Liu chia liang

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      • Lucius Etruscus ha detto:

        Ne parlerò proprio lunedì 😉
        Pensa che l’intera trilogia, comprata appena uscita, l’ho ritrovata poi su bancarella, così la conservo in doppia copia, tanto sono malato collezionista 😛

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