Cinque dita di violenza (1972)

Questa è la storia di un Paese in bilico tra rivoluzione sessuale, rivoluzione culturale, rivoluzione sociale e rivoluzione proletaria, un’Italia del 1973 in cui nessuno si aspettava che in un cinema di Roma proiettassero per la prima volta… mani cinesi piene di dita di violenza!

Disprezzato da tutti, tranne dal pubblico che ne ha decretato un successo fulminante, il cinema marziale in Italia è un fenomeno mai davvero raccontato: è il momento che il Zinefilo si rimbocchi le maniche e trasformi le sue mani… in mani che menano.


Introduzione

«Ho amato i film di kung fu sin dal primo che ho visto:
Cinque dita di violenza. Oh mio Dio, era gioia pura.»
~
John Carpenter, da un’intervista del 2021
a breve tradotta in esclusiva sul Zinefilo

Da ragazzino ricordo di aver adorato la visione del film Furto di sera bel colpo si spera di Mariano Laurenti, beccato su un canale locale: temo sia fra i meno noti dei film interpretati da Pippo Franco, infatti non l’ho mai più rivisto prima dell’èra del digitale.
Il film esce nelle sale romane l’8 febbraio 1974 ma ha ricevuto il visto della censura il 6 dicembre 1973, l’annus mirabilis per la marzialità in Italia.

Cosa si dice nel 1973 dopo aver ricevuto uno schiaffo?

Quando durante il “grande colpo” il nostro Pippo si becca uno schiaffo in faccia, il commento è illuminante:

«Cinque dita di violenza a me?»

Tutti gli italiani all’epoca hanno colto il riferimento alla cultura popolare contemporanea, perché il 1973 è stato l’anno X, quello dell’esplosione totale e globale del cinema di arti marziali asiatico che ha affollato la programmazione di ogni singolo cinema d’Italia. Un fenomeno che ha inorridito gli intellettuali e fomentato il pubblico: un fenomeno iniziato con il titolo Cinque dita di violenza.


I due titanici Bros

Sia nel ciclo dei “maestri sciancati” sia in quello su Jackie Chan ho raccontato quel momento fatale in cui un gruppo di dirigenti uscirono dalla casa madre con il folle progetto di creare un topolino che desse fastidio all’elefante. Raymond Chow e Leonard Ho (quest’ultimo in pratica il “padre putativo” di Jackie) osarono sfidare il gigante Shaw Bros creando la minuscola Golden Harvest, e la cosa assurda… è che ci riuscirono. Anche perché la grande casa di Hong Kong trattava i suoi divi come schiavi, mentre invece titani come Bruce Lee e Sammo Hung alla Golden Harvest potevano essere re incontrastati.
Parliamo comunque di film che in Occidente erano noti esclusivamente a piccoli gruppi di appassionati che li vedeva d’importazione, quando ci riusciva, perché di sicuro le case americane se ne sono sempre fregate altamente di distribuirli nel mercato occidentale. Finché…

Mi piacerebbe sapere con sicurezza cosa abbia spinto i “fratelli” americani a fondersi con quelli cinesi, sapere cioè l’elemento che ha spinto la Warner Bros a rivolgersi alla Shaw Bros per avere un film marziale da distribuire in ogni più sperduto angolo d’Occidente. Perché un genere che è sempre stato ignorato dal cinema americano d’un tratto viene anche solo preso in considerazione da una grande major?
Ho due ipotesi. Una il successo televisivo dei primissimi episodi di “Kung Fu” (1972) con David Carradine, che con il cinema marziale non c’entra assolutamente niente ma rese chiaro che c’era una certa apertura nei confronti dell’argomento.

La seconda potrebbe risalire a quel 31 ottobre 1971, quando forse è arrivato anche negli Stati Uniti l’eco dell’urlo di Chen. Quella sera è avvenuta la prima di Hong Kong de Il furore della Cina colpisce ancora, dove un noto attorino locale di commedie romantiche, che aveva provato a sfondare in America rimanendone sfondato, d’un tratto si ritrovava divo marziale del grande schermo. Bruce Lee fece il botto nel vero senso della parola, visto l’enorme e immediato successo del suo primo film marziale: una cialtronata diretta coi piedi da un incapace come Lo Wei, pieno di buffoneschi caratteristi thailandesi e salti in aria in pieno stile wuxiapian, ma non importa. Il pubblico impazzisce, e alla Warner Bros certe cose fanno effetto.

Bey Logan, nel suo saggio Hong Kong Action Cinema (1996), riporta le parole di Lo Lieh – primo divo marziale asiatico internazionale – che è stato testimone dell’evento, essendosi ritrovato protagonista della pellicola che ha sdoganato il genere in Occidente.

«Il vice-presidente della Warner Bros si presentò alla Shaw Bros e scelse Cinque dita di violenza dalla rosa di film che gli furono proposti. All’epoca credo che i film cinesi avessero prezzi molto bassi, potevi comprarteli per appena centomila dollari americani! Il vice-presidente si prese quel film e lo portò in patria, facendolo uscire in piccoli cinema e riscuotendo grande successo.»

Per quanto fossero economici i film di Hong Kong rispetto alle cifre stellari di Hollywood, mi sento di dire che quel vice-presidente abbia semplicemente scelto il film meno costoso: poteva comprare uno dei capolavori di Chang Cheh o King Hu, poteva comprarsi quel film di Lee che aveva appena fatto esplodere tutta l’Asia, ma no: guarda caso ha comprato il più scalcinato dei film che gli sono stati proposti.

La faccia di Lo Lieh quando ha scoperto di essere un divo internazionale

Visto che all’epoca gli occidentali non sapevano nulla di cinema marziale né esisteva alcun gusto riguardo questo genere, ho il forte sospetto che l’unico parametro di giudizio nella scelta del film sia stato il prezzo basso, usanza che purtroppo sarà la costante fissa negli anni a venire: in Italia arriverà solo la spazzatura più maleodorante di Hong Kong, la scolatura della scolatura della scolatura, mentre i grandi capolavori rimangono o inediti o sconosciuti, semplicemente perché costano più di due spicci e nessun distributore è disposto a spendere.

«Noi due abbiamo visto un sacco di film della Shaw, ma di certo non volevamo perdere questa occasione: che noi sappiamo, questo è il primo film sino-americano.»

Sono più che entusiasti Penny Chue e James Chin quando sulla rivista americana “Audience” (giugno 1973) condividono l’emozione di vedere il cinema della loro Hong Kong uscire dal ghetto e ritrovarsi in co-produzione con la blasonata Warner Bros americana: per la prima volta non esiste una versione in cinese per il mercato locale e una in inglese per il mercato estero, Five Fingers of Death nasce già coi cartelli scritti in inglese, e per i cinesi che vivono in America questo equivale ad un attestato di stima.

Il primo vagito della nuova èra (dalla rimasterizzazione della Celestial Pictures)

Di nuovo, mi piacerebbe trovare fonti sicure che spieghino come mai immediatamente dopo aver prodotto il primo film sino-americano con la Shaw Bros… la Warner molli la grande casa e passi a gemellarsi con la Golden Harvest. In questo caso penso che il motivo sia unicamente il furore di Chen che ha colpito tutti i continenti, e infatti la Warner co-produce I 3 dell’Operazione Drago (1973), che uscito immediatamente dopo la fatale morte di Lee è stato un successo tale da far dimenticare le cinque dita di violenza. In Italia Enter the Dragon è un film noto a pochi perché essendo “di marca” costa tantissimo e non viene mai trasmesso in TV, né appare mai in alcuna delle collezioni video dedicate a Lee, ma in America è in pratica proiettato ininterrottamente dal 1973 ad oggi, facendo parte integrante della cultura popolare. Di nuovo, cancellando anche solo la memoria della co-produzione con la Shaw Bros.

Lo Lieh pompa i muscoletti, ma sarà immediatamente scalciato da Bruce Lee

Per tre decenni (Settanta, Ottanta e Novanta) la Warner Bros sarà la paladina americana del cinema marziale, porterà in Italia parecchi titoli di genere – sia al cinema che in videoteca – e quindi tutti noi fan marziali le siamo debitori. In fondo se non fosse stato per la distribuzione capillare targata Warner, probabilmente l’Italia non avrebbe mai conosciuto il cinema marziale asiatico.


La vita italiana

Povero senatore Renzo Speranza, sottosegretario al Ministero del Turismo e dello Spettacolo italiano dal giugno 1972 al luglio 1973, giusto giusto per ritrovarsi tra le mani grandi gatte da pelare: nel settembre 1972 deve gestire la patata bollente chiamata Arancia meccanica di Kubrick, e mentre ancora ha i sudori freddi a gennaio del 1973 si ritrova a visionare qualcosa di mai visto: cinesi di menare!

da “La Stampa” 11 marzo 1973

In realtà già nel dicembre 1969 era uscito, quasi di nascosto, Mantieni l’odio per la tua vendetta (1967) del maestro Chang Cheh, ma non sembra aver lasciato alcuna traccia di sé nell’immaginario collettivo: di sicuro quel gennaio 1973 nessuno aveva idea esistesse un genere cinematografico basato su gente che si mena a mani nude. Ad essere onesti esisteva già in Italia una cosa simile, visto che era appena nata la “coppia di menare” formata da Bud Spencer e Terence Hill, ma in quel caso erano mazzate in allegria, innocue, bambinesche: i cinesi usavano stili di combattimenti che nel migliore dei casi portavano alla morte!

Ricevuto dal senatore Speranza un divieto ai minori di 14 anni il 23 gennaio 1973, già il 27 successivo il film di Cheng Chang-Ho è programmato al Royal di Roma, per la mia gioia: non perché io abbia avuto la possibilità di vederlo (sarei nato più di un anno dopo!) ma perché fra il 1990 e il 1994 ho visto tutti i migliori film di Van Damme in quel cinema di piazza San Giovanni (anche se in realtà l’entrata è su Via Emanuele Filiberto); nel 2001 con mio padre ci abbiamo visto Kiss of the Dragon con Jet Li e nell’agosto 2004 c’ero solo io, unico spettatore in sala, a vedere Ong-bak: che si sappia, il Royal di Roma è la vetrina marziale per eccellenza, in Italia!

da “La Stampa” del 9 aprile 1973

All’uscita di questo piccolo film cinese nelle nostre sale gira ancora Getaway! (1972) di Sam Peckinpah, ma è il più “leggero” dei film. C’è infatti Provaci ancora, Sam (1972) di Woody Allen, c’è il Polanski vampiroso di Per favore, non mordermi sul collo! (1967), il western di John Huston con L’uomo dai 7 capestri (1972) ma non mancano anche i nostri cugini d’oltre-Alpi: Trappola per un lupo (1972) di Claude Chabrol e La prima notte di quiete (1972) con Alain Delon.
Ci sono prime visioni thriller come Passi di danza su una lama di rasoio (1973) ma anche il cinema d’impegno come Film d’amore e d’anarchia (1973) di Lina Wertmüller. Insomma, tutto cinema “alto”… e poi un cinese che strappa gli occhi a un altro e fa esplodere tutto.

Il primo calcio volante su schermo italiano: e Lina Wertmüller… muta!

Nel presentare le prime visioni della settimana, “La Stampa” del 22 febbraio 1973 – Cinque dita di violenza esce nel Nord Italia quasi un mese dopo l’uscita romana – è costretto a dedicare ampio spazio alla produzione asiatica perché è una scottante novità, ma le critiche si sprecano:

«Da archiviare in fretta questa produzione di Hongkong, un paese che serve mezzo mercato dell’Estremo Oriente con pellicole forti e, a quanto si vede, molto banali.»

In fondo nello stesso pezzo bisogna dare conto che l’associazione Italia-URSS (a cui erano iscritti i miei genitori!) e la Provincia di Torino avevano appena dato il via ad una serie di proiezioni di film direttamente dall’Unione Sovietica, e in via Donati Marie Madeleine Jarry parlerà su La tapisserie moderne. La cialtronata asiatica stona decisamente in questa cornice culturale.

Ecco una panoramica su alcuni film nella Capitale del 27 gennaio 1973

Questa «sagra efferata di kung fu», come lo definisce Morando Morandini – noto oggi per l’omonimo dizionario dei film – sul numero del 29 aprile 1973 della rivista “Tempo”, incassa più di un miliardo di lire in un paio di mesi: non sappiamo quali siano le cifre che incassavano i film nei primi mesi del 1973, ma per essere un filmettino asiatico proiettato in Italia direi che la cifra è alta. Quando la Shaw Bros noleggia un’intera pagina della celebre rivista americana “Variety” (28 marzo 1973) per pubblicizzare il successo enorme che i propri film marziali stanno riscuotendo in giro per il mondo, il primo Paese ad essere citato è l’Italia: le cinque dita della violenza cinese sono number 1.

da “Variety” del 28 marzo 1973

Gli incassi fanno girare la testa e i cinema italiani cominciano a proiettare il film a raffica, per la gioia del pubblico e per il sommo dispiacere degli intellettuali italiani, che iniziano a mettere in scena un teatrino che funziona sempre: l’infamia spacciata per informazione.

Il 1966 non è lontano, con la sua guerra spietata al “fumetto nero“, quando cioè le edicole erano piene di criminali in tuta nera e con una K nel nome, anche se poi solamente Diabolik sopravvivrà alla mattanza. All’epoca sui quotidiani si faceva a gara a sputare su questi fumetti che solo dei decerebrati immorali potevano comprare e leggere, e il noto Enzo Biagi su “La Stampa” (27 settembre 1966) cita alcuni brutti fatti di cronaca lasciando intuire un collegamento con la violenza finta (e spesso cialtronesca) raccontata su carta.

Scambiare i criminali finti per quelli veri è un gioco amato dai giornalisti

È un gioco che i giornalisti adorano, infatti sullo stesso quotidiano citato – anche se nello speciale “Europa” – il 17 febbraio 1973 in prima pagina… aspetta che lo ripeto, in prima pagina, si racconta di una rapina portata avanti ai danni di un cinema di Genova, al grattacielo di piazza Dante. Perché dedicare ben tre colonne in prima pagine per un furto di centomila lire e relativo forte spavento della cassiera? Guarda a volte la coincidenza, in quel cinema proiettavano Cinque dita di violenza. Ma è un caso, eh?, proprio una curiosa coincidenza. Scommettiamo che se avessero proiettato il coetaneo Quel gran pezzo della Ubalda tutta nuda e tutta calda (1972) la notizia non sarebbe finita in prima pagina?

dalla PRIMA PAGINA de “La Stampa” del 17 febbraio 1973

I film sulla mafia aiutano a capire la modernità, i film politici aiutano la pluralità d’opinioni, i film come Blacula (in quei giorni in sala) sensibilizzano sulla “questione negra” all’epoca molto sentita nella sinistra italiana, le commedie con le donnine nude aiutano ad infrangere i tabù che hanno ingabbiato le donne prima della rivoluzione sessuale… Insomma, dite un genere e avrà la sua giustificazione agli occhi della critica o dei giornalisti italiani. Tranne quello marziale, che è volgare e di cattivo gusto. Per questo fa più rabbia il fatto che milioni di italiani inondino le sale e facciano guadagnare fortune ai distributori.


Distribuzione

Come abbiamo visto, Cinque dita di violenza è un filmetto costato poco alla Warner, ma la grande major ci ha messo un leggerissimo ricarico, infatti in Italia è rarissimo perché costa soldi e quindi non è stato mai trasmesso in TV e non ha conosciuto alcuna distribuzione in home video.

La pellicola italiana con il doppiaggio originale è appannaggio di pochi collezionisti che se la tengono stretta, ciò che è arrivato sino a noi è solamente il (pessimo) ridoppiaggio che la Warner ha fatto al volo in occasione di un evento unico: nel marzo 1996, dopo più di vent’anni di oblio, il film ritorna alla luce in una VHS della Warner, nella serie economica “Gli Scudi”, e il vostro Etrusco preferito era lì, in prima fila a comprarla, non sapendo che quella sarebbe stata l’unica edizione italiana “guardabile”.

Quando infatti nel 2004 Fabbri Editori porta in edicola la collana “Kung Fu”, il DVD di Cinque dita di violenza presenta una versione oltraggiosa: le VHS pirata degli anni Ottanta si vedevano meglio! La pellicola presentata è stata prima mangiata dal signor Fabbri in persona, poi defecata e digitalizzata. Ma come si fa a portare in edicola una schifezza del genere?

Questo è l’ingrato trattamento italiano del primo film marziale del nostro Paese: prima l’oblio, poi l’indifferenza, poi l’oltraggio.


Alla sagra del già visto

Sebbene questo sia il primo film divenuto noto al grande pubblico italiano, in realtà è un semplice minestrone di temi più che affermati nella cinematografia di Hong Kong, fermo restando la grandissima e potente novità del genere gongfupian, quello che noi chiamiamo “cinema di arti marziali”. Potremmo far risalire la sua nascita a The Chinese Boxer (novembre 1970) ma non è proprio sicuro sia quello il primo film a mostrare personaggi che si picchiano a mani nude – cosa considerata volgare da sempre – ma sta di fatto che quando Cinque dita di violenza esce nei cinema di Hong Kong, il 28 aprile 1972 (fonte: HKMDb.com) il genere è freschissimo. Non però i temi che affronta.

Le scuole marziali frequentate da poveri, buoni o cattivi che siano; la rivalità fra le scuole; il torneo marziale; l’ultimo degli allievi che mediante la volontà si allena fino a diventare il campione; l’ingaggio di un perfido giapponese per sbarazzarsi di un rivale; la menomazione fisica come sprone a superare i propri limiti: tutti temi classici del wuxiapian riciclati in queste prime fasi del gongfupian. Con la differenza che invece di svolazzare in aria e usare la spada, i protagonisti fanno capriole e tirano pugni e calci.

Per farti smettere di piangere… ti meno le lacrime!

Così abbiamo il protagonista Zhiao (Lo Lieh), ovviamente orfano e povero, che è cresciuto e si è allenato alla scuola del paterno maestro Sung Wu-Yang (Ku Wen-Chung), ma ora deve fare il salto di livello e quindi va sotto il maestro Suen Hsin-Pei (Fang Mian), per il quale però è troppo poco preparato: inizia come sguattero, trattato male da tutti, e man mano si fa esperienza.
Nessuno in quella scuola sa che Zhiao sarà l’ultima speranza contro la scuola del perfido maestro Meng Tung-Shan (lo storico caratterista Tien Feng).

I baffi più amati dal cinema di Hong Kong

Essendo specializzata nello sfornare teppisti e criminali, la scuola del maestro Meng – che impone la spietata Legge del Meng, per cui chi c’ha Zhiao se lo teng – ha spie e infiltrati nelle altre scuole, così scopre che allo sfigato Zhiao il suo maestro sta insegnando la segretissima tecnica della Mano di Ferro. Una tecnica così segreta che il suo insegnamento è segreto anche per noi spettatori: al massimo ci viene mostrano Zhiao che mena un tronco d’albero. Spero che poi, di nascosto, faccia anche altro.

Siamo sicuri che questa tecnica segreta non sia uno scherzone del maestro?

Temendo che Zhiao diventi troppo forte e possa vincere l’imminente torneo con la sua tecnica segreta, il maestro Meng lo fa cadere in un tranello e gli fa rompere entrambe le mani. Tutta roba che i lettori del Zinefilo dovrebbero ricordare, visto che ricopia fedelmente Mantieni l’odio per la tua vendetta (1967) di Chang Cheh, uno dei capisaldi del genere “Maestri sciancati”.
Non so se inserire Zhiao fra i crippled masters, visto che le sue mani guariscono con la velocità del lampo, e grazie alla tecnica della Mano di Ferro… diventano pure fosforescenti!

«’Sta mano po’ esse fèro…» (cit.)

Qualche mese dopo l’uscita italiana di questo film il citato Morando Morandini si lamenterà che i “film cinesi” durano troppo, e in effetti cento minuti sembrano molti di più, a causa di un prodotto non certo di alta qualità e di un protagonista che sembra totalmente inabile alla recitazione: diciamo che è il Brent Huff cinese, si limita a fissare il vuoto e basta. Quando poi lotta è pure peggio, visto che Lo Lieh non sapeva assolutamente nulla di qualsiasi arte marziale.
Per fortuna il piatto è insaporito con una bella panoramica di caratteristi, che da pochi anni potevano finalmente mostrare le proprie capacità marziali. Per esempio fra i cattivi c’è quello con prende la gente a capocciate grazie a non si sa quale “poteri di capa”: il coreano Kim Ki-Ju avrà occasione di farsi notare in tanti altri prodotti similari.

Il lottatore che scapocciava la gente

Dal citato The Chinese Boxer (1970) torna Chao Hsiung nel ruolo di un perfido giapponese, con la differenza che in quel film era compare dell’altrettanto perfido giapponese Lo Lieh, qui invece Lieh fa il buono cinese. Come sempre, i giapponesi sono il nemico per eccellenza, muto, bieco e meritevole di ogni male. Tutta l’Asia odia i giapponesi, visto poi che all’epoca sono ancora fresche le mostruosità disumane da loro commesse sin dall’inizio del Novecento, quindi i film di Hong Kong non si fanno problemi a calcare la mano, perché sanno che così venderanno ancora meglio sul mercato asiatico.

I giapponesi non sono umani. Sono giapponesi

Basta fare mente locale sui film marziali dell’epoca per capire quanto poco valga questo Cinque dita di violenza, segno che la Shaw Bros non aveva capito il genere che lei stessa aveva fatto nascere e che invece stava prosperando grazie ad altre case: si limitava a riciclare vecchi schemi, senza dare nuove caratteristiche a qualcosa di unico e mai visto prima.

Ci scappa pure un piccolo ruolo per il mitico Bolo Yeung

Però in Italia tutto questo era ignoto, nel 1973 nessuno conosce il materiale che questo film ricicla, l’epica del “lottare feriti”, i “maestri sciancati” (dal giapponese Zatôichi al cinese Fang), le “scuole rivali” e la violenza esagerata: era tutto nuovo, ed era tutto esplosivo. Due mesi dopo l’uscita italiana del film la citata rivista “Tempo” consulta uno psichiatra per capire quanto la violenza dei film cinesi farà male agli spettatori italiani, come vedremo più avanti.

Cinque dita di viuleeeeeeeeenz’

La risposta italiana a questo primo film di arti marziali sarà spropositata, come vedremo, e per tutti gli anni Settanta il gongfupian sarà re dei botteghini nostrani, anche se nessuno sapeva si chiamasse così. È l’inizio di un fenomeno di massa che finora non è stato mai studiato: ci pensa il Zinefilo!

Un’ultima curiosità. Ogni volta che nell’ultima parte del film Zhiao usa il colpo della “mano di ferro”, parte un tema musicale riconoscibilissimo e all’epoca di gran moda: il tema di Quincy Jones per la serie televisiva “Ironside” (1967). I gggiovani lo conoscono perché Tarantino lo butta a casaccio in Kill Bill (2003) senza alcun motivo.
I film di Hong Kong spesso rubacchiavano temi sonori dai film occidentali, persino il nostro Morricone è stato vittima di smaccato plagio, ma la curiosità è che scegliere questo brano di Jones per me è una citazione: il mese precedente la sigla di “Ironside” era stata già plagiata da un film della concorrenza, Dalla Cina con furore della Golden Harvest, ma questa… è un’altra storia.

L.

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40 risposte a Cinque dita di violenza (1972)

  1. wwayne ha detto:

    A me è capitato una sola volta di andare al cinema e ritrovarmi ad essere l’unico spettatore in sala, con “My father Jack”. Tra l’altro mi è successo di Sabato pomeriggio, che insieme alla Domenica è il giorno di maggiore incasso per i cinema, e questo la dice lunga su quanto sia stato gigantesco il flop di questo film. Immeritato, perché a me ha fatto spanciare dalle risate.
    Altre 3 volte mi è capitato di andare vicinissimo ad essere l’unico spettatore in sala, perché eravamo soltanto in 2:

    a vedere “Ipotesi di reato” eravamo io e mio padre;
    a vedere “Bent – Polizia criminale” eravamo io e uno sconosciuto;
    a vedere “La casa in fondo al lago” eravamo io e una mia amica.

    Di questi 3 film, l’unico che non meritava assolutamente così pochi spettatori è “Bent – Polizia criminale”: è uno dei polizieschi più belli che abbia mai visto. E fidati che ne ho visti tanti.

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  2. Il Moro ha detto:

    Altra grandissima indagine del Zinefilo!

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  3. Cassidy ha detto:

    Quando il titolo di un film diventa una frase di uso comune, vuole dire che quel film ormai è leggenda come in questo caso. Non è nemmeno tra i più magnifici Kung-Fu movie di sempre ma beccarmi gallina se non è tra i più famosi della storia è anche tra i più divertenti, in ogni intervista ad attori e registi di genere, questo emerge sempre come uno dei primi titoli visti da tutti, italiani e americani, insomma grandissimo post e gran inizio di nuova rubrica! 😉 Cheers

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  4. Lorenzo ha detto:

    Curioso che il titolo nella versione Celestial Pictures e quello stampato sulla copertina del DVD abbiano i Kanji in ordine rovesciato. Il significato dovrebbe essere “il pugno numero uno sotto al cielo (cioè al mondo)”.
    Comunque, questi film di arti marziali cinesi me li ricordo in TV da bambino, ogni tanto li guardavo, mi affascinavano i combattimenti coreografati quasi come dei balletti. Ammetto che non è il mio genere preferito – le ambientazioni spesso rurali e feudali, i personaggi che non riuscivo a distinguere, i doppiaggi che probabilmente si inventavano le cose e non si capiva niente – ma il livello di approfondimento di questo primo post è notevole, mi è quasi venuta voglia di vederne uno 😀

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      I prodotti giunti in Italia sono spesso la serie Z di Hong Kong, venduta a poco ma distribuita tanto, quindi sono davvero pochi i titoli che mi sentirei di consigliarti: non certo questo 😛
      Il cinema marziale di Hong Kong è nato grazie al fallimento delle varie scuole dell’Opera di Pechino che fino al Novecento erano l’istituzione culturale principale della zona, e alla chiusura decine di fenomenale atleti, addestrati al combattimento coreografato su palco, si sono riversati nel cinema. Tutti i grandi coreografi che hanno scritto pagine fondamentali del cinema d’azione anche occidentale – da Yuen Woo-Ping a Corey Yuen – vengono da lì, per non parlare di Sammo e Jackie. E tutti erano addestrati al combattimento acrobatico coreografato come un balletto.
      Negli anni Ottanta sui canali locali si beccavano spesso questi film, io ne ho beccati ancora a fine Novanta!

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  5. Willy l'Orbo ha detto:

    Un notevole lavoro di analisi sul cinema da menare? Grande trepidazione.
    Una citazione di Bolo Yeung? Grande gioia.
    Il tutto con firma etrusca? Grande garanzia.
    🙂

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  6. Nick Parisi ha detto:

    Franco Franchi ne farà un bella parodia anni dopo sostituendo la ” Mano di Ferro” con la mitica ” Mano di Travertino”.

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  7. Gioacchino ha detto:

    Mi ricordo che questi film mi attiravano dai manifesti con titoli assurdi tipo: Con una mano ti rompo con due piedi ti spezzo, Testa di bronzo dita d’acciaio ecc., la violenza dilagava all’epoca, poi finivano per essere proiettati nei cinema di terza e quarta visione, dove nelle sale tra bucce di noccioline e lattine sul pavimento aleggiava una nebbia di fumo da sigarette che creava l’atmosfera. .

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      Ancora nella metà degli anni Ottanta si poteva fumare nei cinema, e ricordo da ragazzino molti film visti tra la nebbia in aria e il pavimento appicicaticcio, grazie a fiumi di Coca Cola versati e pop-corn caduti: era questo il fascino del cinema 😛
      Negli anni Settanta il cinema era il re dell’intrattenimento in Italia, con un esercito di sale e con film che rimanevano anni a girare: tutti prima o poi finivano nelle sale parrocchiali, nelle arene estive o in piccole sale di provincia, ma tutti iniziavano dalle sale principali, anche questi marziali.
      I titoli poi erano tutto un programma: che ne sanno all’estero dei titoli chilometrici inventati dagli italiani??? 😀

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  8. Sam Simon ha detto:

    Ferma tutto: intervista a John Carpenter? Che stai aspettando? :–D

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  9. SAM ha detto:

    Per me 5 dita ecc-… non viene replicato in tv o dvd non perché costa troppo, ma perché è un film vecchio, mediocre, senza alcun attore di grido che richiami puubblico.
    I vecchi film di JackieyChan inediti da più di 30 anni li abbiamo visti pure doppiati per l’ occasione sia in tv che in dvd, perché appunto hanno JC, che è famoso.

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      Temo che le emittenti non giudichino i film in base alla vecchiezza e alla mediocrità, visto l’offerta televisiva.
      Molti film di Jackie hanno impiegato anni per arrivare in TV e solo pochissimi titoli della sua sterminata produzione conoscono una qualsiasi replica, per non parlare dei suoi inediti o dei suoi titoli apparsi e scomparsi in un baleno. In proporzione, Jackie è un autore mai replicato, perché su cinquanta film alla fine ne trasmettono sempre i soliti due o tre.
      “Furia gialla”, “Il braccio violento del Thay-Pan” e “L’urlo di Chen terrorizza tutti i Continenti” sono film mostruosamente brutti senza alcun attore noto, eppure Mediaset li replica tranquillamente da decenni. Guarda caso NON sono targati Warner.
      “I tre dell’Operazione Drago” ha Bruce Lee protagonista e nel mondo (tranne in italia) è il suo film più famoso, eppure non viene replicato mai, non apparendo mai in nessuna iniziativa home video italiana dedicata a Bruce o in alcun ciclo televisivo. Guarda caso è targato Warner Bros.

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  10. Pingback: Halloween Kills (2021) Intervista a John Carpenter | Il Zinefilo

  11. SAM ha detto:

    “Temo che le emittenti non giudichino i film in base alla vecchiezza e alla mediocrità, visto l’offerta televisiva.”
    Sicuramente ci sono anche i fattori economici come dici ( tipo Mediaset che replica come tappabuchi film del catalogo Medusa, che gli appartiene;; lo stesso discorso vale per i vari Paramount channel ecc… ), ma anche la “stagionatura” conta: se certi titoli li fanno vedere a orari improbabili e sulle reti più ignorate, un motivo ci sarà, no ?
    Mi verrebbe anche da dire che in Italia, film con attori orientali non tirino in TV : persino Bruce Lee, non certo l’ultimo dei fessi , non è che venga replicato così spesso , anzi.
    Giusto Rai 4 che è una rete “specializzata” e appartenente allo Stato si è data al recupero di film orientali , ma non credo abbiano fatto breccia presso il grande pubblico .
    Non che all’ estero sia diverso: anche altrove i film orientali hanno difficile distribuzione, solo che che al contrario dell’ Italia , in molti Paesi riescono a distribuirli con i sottotitoli , da noi improponibili (ma le cose stanno cambiando con le piattaforme streaming ).
    Aggiungo pure che chi decide i palinsesti oggi, è magari gente giovane che il film più vecchio che avrà visto risalirà al 2000.
    E quando devono decidere cosa trasmettere di anteriore a quella data, vanno a vedersi il video di qualche Youtubers ” esperto” di cinema per vedere cosa tira tra il popolo internettiano.

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      Sarebbe bello se fosse così, ma le emittenti non ragionano per gusti, probabilmente non hanno mai visto i film che trasmettono: acquistano pacchetti di film in base ad accordi commerciali, la qualità del film non conta una mazza, conta solo la casa che lo distribuisce e i soldi che chiede per il numero di passaggi. Se poi il film ha dei divieti finisce di notte, nei rarissimi e fortunati casi in cui venga trasmesso, oppure viene tagliato con l’accetta per poterlo trasmettere in prima serata: se il film sia bello o meno, vecchio o nuovo, non frega a nessuna emittente, perché solo gli spettatori pensano a queste cose. Hanno regole, tabelle, grafici e prezziari, magari qualche piccolo spazio di movimento per la fascia notturna – dove infatti Mediaset manda in onda i film più rari e chiccosi – il resto rimane fuori dal discorso.

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  13. Marco Vecchini ha detto:

    In questi giorni avevo dato un’occhiata al film “il mio nome è Shangai Joe” che c’è su prime video. Da quello che leggo su Nocturno il cinema italiano non aveva perso troppo tempo a seguire la scia dei cinesi di menare, visto che è dello stesso anno di questo. Sono allibito dalle velocità produttive del tempo, oggi come minimo per accorgersi anche solo di un trend ci mettono 5 anni.

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      Sull’argomento ho già scritto in passato (“Spaghetti marziali”) e recupererò l’argomento per questo ciclo: non solo gli italiani hanno saputo immediatamente cogliere il potenziale del nuovo genere, ma ne hanno creato un altro, che possiamo chiamare “kung fu western”, purtroppo di vita breve ma intensa.
      Shanghai Joe e il suo “gemello diverso” sono stati recentemente riscoperti grazie alla distribuzione in digitale, ma ci sono film decisamente migliori che rimangono ancora dimenticati: li presenterò nel ciclo, volta per volta 😉

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