Nei cinema italiani degli anni Sessanta-inizi Settanta il WIP tira alla grande, malgrado ovviamente la critica “alta” se ne disinteressi. Così appaiono titoli minori che non lasciano tracce negli archivi cinematografici, come La gabbia: misterioso film a cui sto dando la caccia, che esce il 12 luglio 1971 con il lancio «assurde passioni e violenza in una prigione di donne».
Già il 22 marzo 1974 viene annunciato che l’attrice Martine Brochard sta recitando in un film carcerario italiano, che uscirà il 13 agosto 1974 (fonte IMDb) con il titolo Prigione di donne, che non va confuso con il titolo omonimo uscito da noi nel febbraio 1965. (Prisons de femmes del 1958 di Maurice Cloche a cui sto dando la caccia!)
Il lombardo Brunello Rondi scrive e dirige un film che segue la grande moda del momento, sebbene ignorata dagli storici del cinema, la moda che usa due parole che garantiscono incassi: “prigione” e “donne”.
Sembra strano a dirlo oggi, in tempi in cui l’Italia è la barzelletta del mondo, ma negli anni Settanta vendevamo film all’estero (forse perché ancora non erano fatti sperperando i nostri soldi delle tasse!): questo in particolare è stato presentato in molti Paesi, e negli USA ha preso il titolo di Riot in a Women’s Prison.
La Dynit Minerva lo porta in DVD dal 19 novembre 2014.
La guida turistica Martine Fresienne (Martine Brochard), francese ma che vive in Italia, un giorno durante una visita a delle rovine incontra per caso dei giovani tipici degli anni Settanta: drogati persi spalmati per terra.
La donna cerca di farli allontanare dalle rovine antiche ma arriva una retata della polizia e la povera Martine viene caricata malgrado le sue opposizioni: nella confusione le viene erroneamente trovata addosso una “sigaretta di droga” e sono almeno 1.500 anni di galera.
In attesa di processo, viene ingabbiata con una secondina che ha già pronto il “dito indagatore”.
Il “dito curioso” piace agli italiani, perché lo ritroviamo già in Io monaca per tre carogne e sette peccatrici (1972) e addirittura un dito inguainato è la scena che apre Diario segreto da un carcere femminile (1973).
Malgrado non si veda nulla, lo stesso qui è tutto molto più intenso e la povera Martine subisce il suo primo abuso dal potere. Perché al di là dei dettami del genere, è pur sempre un film neorealista italiano – seppur mascherato – e l’accento dunque non è su situazioni pruriginose tra galeotte bensì sulla denuncia della società italiana contemporanea.
Martine si ritrova così in cella con la grintosa Susan (Marilù Tolo) che le introduce la dimostrante Grazia (Katia Kristine), bionda attivista pestata durante una manifestazione, e l’esperta in aborti abusivi Gianna (Erna Schurer).
Da qui inizia una panoramica sui vari abusi che le donne subiscono nella società, sia quando vengono emarginate sia quando cercano di cambiarla, e l’unica donna punita dell’intero film non si sa bene cos’abbia fatto: ci viene detto che è una donna che ha detto no… e questo basta in Italia per essere punita.
I dettami del genere vanno rispettati così vediamo scene di nudità, doccia comune con grazie al vento, l’immancabile catfight con relativa ribellione, che qui sostituisce il solito tentativo di fuga.
Le divise carcerarie sembrano una mera scusa per avere degli abiti da togliersi ogni tre per due, ma in realtà è chiaro che l’intento di tutto il film è quella denuncia che la cultura italiana ha ormai completamente dimenticato.
Come per esempio all’inizio, quando le detenute sono indottrinate dalle suore: il confronto tra le “madri” ecclesiastiche e le “madri” vere, che il più delle volte hanno abortito o hanno visto i figli uccisi dalla polizia, è durissimo e spietato. Dialoghi assolutamente impossibili nell’Italia degli anni successivi, così proni davanti alla Chiesa da dimostrare eccezionale assenza di ossatura interna.
Gradevoli infine le musiche “tarantellate” di Alberto Verrecchia, ma c’è una domanda che mi preme porre: perché durante la scena d’arresto della protagonista si sente il meraviglioso brano Funeral For a Friend di Elton John, da “Goodbye Yellow Brick Road” (1973), SENZA che questo venga accreditato? E in seguito le scene d’azione del film saranno tutte sottolineate dalla rielaborazione di questo brano.
Curiosamente nel disco della colonna sonora, i cui brani si possono sentire in piccole anteprime su Amazon, è assente questa scopiazzata palese, che invece permea l’intera pellicola.
Prigione di donne è un film da riscoprire perché, come in fondo anche gli altri WIP italiani, dietro la patina del genere c’è un cuore pulsante di denuncia sociale ormai dimenticato, che andrebbe riscoperto ed esaltato.
L.
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Il WIP come denuncia e non solo come sfoggio di cosce e scollature, altro gran pezzo per questa super rubrica, anche oggi ho imparato qualcosa 😉 Cheers!
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Merito di bravi autori italiani ingiustamente dimenticati.
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…aggiungo dimenticati per esaltare le cineschifezze che hanno infestato i cinema da fine anni Ottanta ad oggi (leggi cinepanettoni marci e commediole insulse dove c’è più copia e incolla che nella prova di matematica pre-maturità del mio vicino di banco dei tempi)
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Un crollo verticale proprio mentre i trombettieri ciechi continuano a gridare che il cinema italiano è apprezzato nel mondo: forse l’equivoco risiede nel fatto che non specificano “quale” mondo 😀
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Questa presunta fama mondiale dell’attuale cinema italiano, vantata dai trombettieri/tromboni che poi ignorano bellamente i tentativi di pochi registi coraggiosi di discostarsi dalla massa appecorata (per fare qualche nome, vedi ad esempio proprio il “soprannaturale” Bianchini oppure, con più fama e mezzi a disposizione, l’ultimo fiabesco Garrone) è degna della commedia dell’assurdo 😦
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