Gli anni passano e gli scimmioni invecchiano. Mentre la RKO fa girare King Kong (1933) per i cinema del mondo, e nasconde sotto il tappeto Il figlio di King Kong, Merian C. Cooper non è tipo da starsene seduto a vivere di ricordi.
Già nel 1934 conosce il maestro John Ford perché, quando è ancora alla RKO, produce il suo film di culto La pattuglia sperduta: se volete saperne di più sul film che ha creato da solo un intero genere, il “cinema d’assedio”, vi consiglio il mio saggio gratuito Dieci contro mille.
Dopo Gli ultimi giorni di Pompei (1935) Cooper passa a produrre per altre case, come la MGM o la Paramount – dove mette la firma sul successo de Il dottor Cyclops (1940) – finché l’amicizia con John Ford si solidifica in qualcosa di più concreto: i due fondano la casa di produzione Argosy Pictures, che per la distribuzione si affida alla capillare RKO.
L’accordo è chiaro: John Ford dirige quello che vuole e come lo vuole, mentre Cooper caccia i soldi e sta zitto. Visto che sfornano in rapida sequenza due successi come Il massacro di Fort Apache e In nome di Dio. Il texano, entrambi del 1948, si può dire che il sistema funziona.
Nel 1949 la Argosy continua a sfornare western di Ford come I cavalieri del Nord Ovest, e si prepara a creare capolavori senza tempo come Rio Bravo (1950) e Sentieri selvaggi (1956). Però Cooper ci soffre a fare semplicemente il bancomat di Ford, soprattutto perché il suo cuore è ancora là… in Africa.
Il suo cuore ha ancora una storia africana da raccontare, ha ancora una storia di natura selvaggia che si scontra con la “civiltà” occidentale. Ma soprattutto ha ancora uno scimmione che gli pesa sul cuore, e visto che la Argosy sta facendo soldi a palate decide di provare a ritornare in pista.
Con quasi due milioni di dollari di budget – più del doppio di King Kong – Cooper chiama a raccolta la squadra di sedici anni prima. L’amico-nemico Ernest B. Schoedsack torna a fare il regista, la di lui moglie Ruth Rose torna alla sceneggiatura mentre il soggetto originale viene rivendicato da Cooper stesso.
A Ford qualcosa si deve concedere, così come attore protagonista viene ingaggiato il suo protetto Ben Johnson, che potete trovare in tutti i film western dell’epoca e oltre.
Agli effetti speciali chi ci mettiamo? Non scherziamo, squadra che vince non si cambia: Cooper acchiappa il 63enne Willis O’Brien e lo trascina sul set insieme al fidato Marcel Delgado.
Però O’Brien non ha più le forze d’un tempo, così si limita al lavoro concettuale e a ritirare l’Oscar l’anno successivo: il lavoro sul campo lo affida a un giovane tecnico che deve farsi le ossa. Un tizio di nome Ray Harryhausen… Per quei due sprovveduti che non lo conoscessero, è il dio assoluto dei mostri in stop motion fino agli anni Ottanta. Ogni drogato di cinema della mia generazione ha sognato almeno una volta di fare quel mestiere!
Dal dicembre 1947 al marzo 1948 si girano gli esterni a Thousand Oaks, in California (altro che Africa!), e poi la magia passa alle mani dei tecnici in studio. Ma la vera magia del film è tutt’altra.
Il film, prodotto dalla Argosy e distribuito dalla RKO, presenta la curiosa contrazione ARKO: è un modo per ricordare a tutti la casa che sfornò King Kong, ma anche il simbolo del vero spirito con cui la pellicola arrivò al cinema. Cioè una immane operazione di marketing.
Il 16 maggio 1949 Leon J. Bamberger, direttore del reparto vendite RKO in Sud Africa, inviò undicimila cartoline da Johannesburg dirette ad ogni giornalista cinematografico esistente: tutte da parte di Mighty Joe in persona! Nell’agosto successivo il dirigente cinematografico Guy Hevia mostrò a frotte di bagnanti curiosi del New Jersey un gorilla in surf… ok, era solo un surfista con un costume scimmiesco, ma anche questo è marketing.
Le strade di New York vengono letteralmente tappezzate di locandine e manifesti di ogni genere almeno un mese prima dell’uscita in sala del film, il 27 luglio 1949, ma tutta questa immane campagna pubblicitaria non argina la sciagura: il film è un disastro completo, non riuscendo neanche a rientrare delle spese.
È la fine di Merian C. Cooper, che torna in silenzio a fare il bancomat di John Ford, il quale – onta su onta – disconoscerà quel film anni dopo, sebbene l’avesse co-prodotto.
Cooper morirà nel 1976 senza mai più scrivere nulla, facendo giusto in tempo a vedere l’unica sua creatura di successo, Kong, sbeffeggiata da giapponesi e coreani.
Quel 1949 nella polvere non finisce solo Cooper, ma anche un progetto annunciato che ormai non può più produrre: Mighty Joe Young meets Tarzan… Non so voi, ma io avrei pagato oro per vedere il Re della Jungla andare a cavallo di un gorilla gigante!
Il film arriva in Italia il 10 aprile 1950 con il titolo Il re dell’Africa. Non si hanno notizie di uscite in VHS ma il film gira tranquillamente in TV, su canali nazionali e regionali. La Pulp Video lo porta in DVD dal 5 marzo 2013 mentre la Dynit RKO lo ristampa dal 22 aprile 2015.
In una zona non meglio specificata dell’Africa la piccola Jill Young (Lora Lee Michel) compra senza permesso un cucciolo di gorilla da dei neri, che non è chiaro cosa accidenti ci facessero con un cucciolo di gorilla in una cesta. Tutta la scena serve solo a veicolare beceri stereotipi culturali – il bravo padrone bianco che è magnanimo con gli stupidi neri – e a introdurre un gorilla che, per ragioni ignote, cresce dieci volte di più di un qualsiasi altro primate africano.
Passano dodici anni e l’impresario newyorkese Max O’Hara (Robert Armstrong) giunge in Africa alla ricerca di nuove attrazioni per i suoi spettacoli con animali: ormai il pubblico si annoia coi leoni e vuole qualcosa di più emozionante. Lo accompagna nell’impresa il cowboy Gregg (Ben Johnson).
John Ford ormai è il re del western e quindi è immancabile la scena in cui i cowboy di New York (!) prendono al lasso un grande gorillone, finché da un cespuglio sbuca la cresciuta Jill Young (Terry Moore) e i cowboy, che non si erano spaventati davanti ad un gorilla gigantesco, subito si ritirano.
Finita la vergognosa marchetta al cinema di Ford, si ritorna in casa Cooper: l’impresario O’Hara convince Jill a venirsene a New York con lui, portandosi dietro il gorillone, che lei chiama Joe e tratta come un fratello. Ecco dunque Joe Young.
Nella rutilante New York subito Jill e Joe diventano l’attrazione principale delle serate frizzanti, tra balletti variopinti e tutto lo spettacolo che Cooper non era riuscito ad organizzare per King Kong.
Il numero consiste in Jill che esegue al pianoforte la canzoncina che calma il gorillone, e intanto Joe esce da sotto il palco e solleva in aria sia la ragazza che il pianoforte.
Una sera però dei ricconi ubriachi danno dell’alcol al gorilla e questi va fuori di banana. Distrutto il teatro e l’intero quartiere, Joe viene imprigionato e condannato alla soppressione: Gregg aiuterà Jill a riportarlo in Africa, che la Grande Mela non fa per lui.
Già che c’è Joe salva i bambini di un orfanotrofio in fiamme così si ripulisce l’immagine pubblica.
Grazie all’enorme flop, questo film deve costare meno di King Kong perché il “titolare” raramente si è affacciato in TV mentre Mighty Joe ancora nei primissimi anni Novanta lo si poteva beccare su qualche piccolo canale. All”epoca ero un giovane patito di stop motion con il cuore pieno delle creature di Ray Harryhausen, difficilissime da trovare in TV: ricordo che vidi Il re dell’Africa molto prima di King Kong, e sebbene non ricordo molto lo stesso ho il preciso ricordo che mi fosse piaciuto. Non parlo di trama, ma di livello di fascino del gorillone gigante che interagisce con un ambiente umano.
Non mi sento di condividere quel giudizio, ora che dopo 25 anni ho rivisto il film, ma evidentemente la sfortunata pellicola ha lo stesso saputo dare qualcosa a chi era disposto ad accettarla.
Sparargli addosso oggi non ha senso: 60 anni di storia del cinema gli hanno già fatto pelo e contropelo. Mi metto dunque nei panni del giovane me, che con la telecamera di famiglia creavo piccoli filmati in stop motion utilizzando i pupazzi Lego, e considero questo povero Mighty Joe un figlio minore di un grande sogno: quel sogno di un cinema in grado di rendere vera la natura irreale, di portare i mostri più impensabili direttamente a casa nostra.
E in quello, secondo me c’è riuscito…
L.
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Il surfista in costume da scimmia sarebbe piaciuto a John Landis, per il resto, solo l’idea di Tarzan a cavallo di un gorilla gigante mi esalta! 😉 Così come mi esalta questo tuo pezzo, ogni volta che si parla del Maestro Ray Harryhausen non posso contenere il mio entusiasmo. Questo film me lo ricordo bene, e ricordo anche che fù molto difficile per me reperirlo, quindi ti capisco bene.
Esiste anche un remake o mi sbaglio? Quello con Charlize Theron. Cheers!
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Yes, ed è in lista per venerdì prossimo: non l’ho mai visto ma temo non potrà salvare l’opera di Cooper…
Malgrado sia O’Brien ad aver inventato un mondo, è ad Harryhausen che guardiamo tutti come il Maestro 😉
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Condivido al 200% la chiusa poetica e sentita del tuo post, ovviamente, che mi fa accomunare idealmente (per gli echi western e la presenza dell’indimenticabile Ray) Il re dell’Africa con un altro non meno sfortunato film di un paio di decenni dopo, La vendetta di Gwangi 😉
Certo che per l’epoca l’operazione di marketing fu davvero imponente: un qualcosa alla Dino De Laurentiis, direi, facendo le debite proporzioni…
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Mitico Gwangi, altro capolavoro in stop motion da rivalutare.
In questi tempi in cui solo la Disney ha i soldi, vedere il marketing anche per piccoli film fa sempre effetto!
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Sai che ora sei COSTRETTO a recensire anche il ridicolo remake che fu fatto negli 2000 vero?
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Purtroppo ne sono consapevole: è già lì pronto, sebbene temo sarà molto doloroso 😛
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“Ti renderà più forte” (cit.)
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Beccato in Tv qualche anno fa, purtroppo colonizzato, l’ ho trovato un film carino. Si tratta di una si pratica commedia. Hanno persino fanno il remake anche di questo che all’ epoca ovviamente non sapevo fosse un remake! XD
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