Jackie Chan Story 14. Strambi sbirri

Continua il viaggio agli albori della carriera di Jackie Chan, mediante la sua corposa autobiografia I am Jackie Chan. My Life in Action (1998), eventualmente integrata con l’altra autobiografia Never Grow Up (2015). Sono entrambe inedite in Italia, quindi ogni estratto del testo riportato va intendersi tradotto da me.

Dieci anni fa nei meandri nascosti di una bancarella trovai una videocassetta senza custodia, buttata lì a prendere polvere e umidità. Una volta girata e letto il titolo, trovai che l’euro chiesto dal venditore fosse un prezzo giusto… per quella rarità assoluta. Digitalizzata subito la cassetta, quel ritrovamento fortuito mi consente di gustare il rarissimo doppiaggio italiano del primo film “Strambi sbirri” di Jackie Chan.


Indice:


Sbagliando s’impara…
a sbagliare ancora

Dopo il successo di Wheels on Meals (agosto 1984) Jackie torna a ricoprire il piccolo ruolo di poliziotto moderno ne La gang degli svitati (febbraio 1985), uno dei film corali di Sammo Hung di cui abbiamo già parlato, ma non c’è riposo per il guerriero: non è chiaro quando (la sua autobiografia non specifica la data) ma probabilmente sul finire del 1984 o al massimo all’inizio del 1985 Jackie si ritrova seduto alla Golden Communications, la filiale americana della Golden Harvest. I produttori vogliono ancora provare a “vendere” l’attore agli americani.

Andre Morgan – il “genio del male” della compagnia, che da dieci anni sforna filmacci come Poliziotto privato: mestiere difficile (1977) – ha una teoria, secondo cui l’errore di Chi tocca il giallo muore (1980) consiste nell’aver cercato di rendere simpatico Jackie.

«”Simpatico” non funziona in America, qui non vogliono eroi ma tipi tosti.»

Curioso che nessuno abbia notato come il citato film sia brutto e girato male, no: il problema secondo loro è che Jackie lì è troppo simpatico. Comunque negli occhi dei produttori c’è Clint Eastwood: vogliono “clintizzare” Jackie perché il pubblico statunitense riesca ad apprezzarlo. Il che è davvero un ragionamento ben strano: per far capire Jackie ad un pubblico straniero, glielo vogliono presentare come lui non è.

Questi geni del cinema partoriscono così il film The Protector, che di per sé non è un film sbagliato – visto che verrà copiato paro paro per Rush Hour (1998) – semplicemente usa la stessa filosofia di Chi tocca il giallo muore: una brutta sceneggiatura, un pessimo regista, una resa inguardabile, un risultato imbarazzante. Non serviva avere poteri divinatori per capirlo sin da subito, visto che per Jackie sin dalla prima riunione era chiaro come quel nuovo progetto sarebbe stato un tonfo totale. Deciso a sopportare le balzane (e palesemente sbagliate) idee della Golden Communications, visto quando la “casa madre” veniva incontro alle sue esigenze, Jackie resiste fino a metà riprese, poi da New York telefona a Leonard Ho ad Hong Kong:

«Le cose sono due: o se ne va il regista o me ne vado io.»

Non è chiaro perché la Golden Harvest nel girare film su suolo americano si affidasse esclusivamente a registi che davano il peggio di sé. James Glickenhaus è un onesto artigiano che ci ha regalato il valido Exterminator (1980) ma anche il raffazzonato Executor (1982): l’ultimo suo film degno di nota è Un poliziotto in blue jeans (1988), segno che il genere d’azione poliziesca dovrebbe rientrare nelle sue corde. Forse è lavorare con produttori cinesi che trasforma registi normali in pessimi.

Segnatevi questo nome, che dagli anni Ottanta non lo vedrete più!

Al produttore Leonard Ho, che specifica come il contratto di Glickenhaus sia inattaccabile e tocca tenerselo, Jackie presenta tutte le sue remore: «Mi sta distruggendo», è il melodrammatico lamento. Scopriamo che Glickenhaus ha impiegato ben quattro giorni per girare una sola scena d’azione, e questo ha mandato Jackie ai pazzi. Forse che il nostro eroe trova stancante questo ritmo? No, è l’esatto contrario.

«Quattro giorni! Non ho mai girato una sequenza che richiedesse meno di venti giorni. Ma niente, anche quando una ripresa è orribile Glickenhaus semplicemente dice “non ci pensare” e va avanti. Questo film mi farà sembrare un idiota.»

Jeff Rovin e Kathleen Tracy nel loro saggio The Essential Jackie Chan Sourcebook (1997) riportano dichiarazioni del regista Glickenhaus senza purtroppo specificare da dove arrivino: forse l’hanno intervistato loro o forse hanno trovato queste parole in una qualche rivista dell’epoca, purtroppo non ci è dato sapere.

«Sin dall’inizio ho detto a Jackie che questo sarebbe stato il mio film e che io avrei diretto le sequenze marziali, facendole in modo completamente diverso da come le faceva lui.»

Non sapendo da dove arrivi questa dichiarazione, non sappiamo quando sia stata rilasciata, ma credo in tempi parecchio successivi all’uscita del film: all’epoca Glickenhaus era una giovane nullità con giusto un paio di film all’attivo, dubito fortemente che abbia fatto il “duro” con Jackie, da anni star incontrastata d’Asia. Comunque ci aiuta a capire il clima di profonda ostilità che dominava il set sin dal primo giorno, con un regista che credeva di sapere ciò che stava facendo (e i risultati al botteghino hanno dimostrato che così non era) e un attore costretto a fare tutto ciò che era ampiamente dimostrato non funzionare, né in America né ad Hong Kong.
La risposta di Leonard Ho alla telefonata disperata di Jackie è stupefacente:

«Jackie, è ovvio che abbiamo commesso un errore, ma abbiamo bisogno che tu porti a termine la produzione. Appena finito di girare in America torna ad Hong Kong: se sarai ancora seccato vedremo il da farsi.»

Leonard Ho non è un passacarte o un semplice impiegato: è il socio fondatore e principale produttore della Golden Harvest, la casa che ha sfidato il titano della Shaw Bros e ha vinto, la casa che ha portato Bruce Lee nel mondo, che ha saputo capire Jackie Chan… come può compiere errori così pacchiani? Probabilmente chi si occupava di “intercettare” il gusto del pubblico americano non aveva le idee ben chiare, oppure semplicemente i produttori della filiale americana avevano dei pessimi gusti. Il fatto che i film girati in America dalla Golden Harvest siano tutti inguardabili – malgrado abbiano avuto ampissima distribuzione – potrebbe indicare davvero una carenza di gusto.

Jackie non può dire di no a Leonard Ho, sia perché gli deve tutto sia perché è lui che sgancerà i quintali di soldi per i prossimi progetti in patria, quindi china la testa e finisce le deliranti riprese di The Protector. Alla fine, abbandonata di nuovo l’odiata America, torna ad Hong Kong e attua la sua vendetta.

Ciò che secca l’attore non è l’aver recitato in un pessimo film, piuttosto il fatto che i suoi fan possano andare al cinema, pagare il biglietto per un Jackie Chan Movie e trovarsi davanti quella robaccia che con lui non c’entra niente. Degli americani se ne frega, ma ad Hong Kong no: lui è il re della giungla, non può permettere che quel filmaccio venga distribuito in Asia così come l’ha fatto Glickenhaus. Ingaggia alcuni attori, si fa scrivere una sotto-trama dal suo fido Edward Tang con un personaggio da aggiungere in post-produzione, cancella le stupide “americanate” volute da Glickenhaus (tipo parolacce, nani e donne nude) e rigira il combattimento finale del film, così che almeno quella parte assomigli ad un Jackie Chan Movie.

La versione americana è un fiasco totale, subito giustamente dimenticata. La versione di Hong Kong è un successo in Asia.


La distribuzione

Presentato (con che coraggio?) al Festival di Cannes nel maggio 1985, The Protector esce in America per Warner Bros nell’agosto successivo, mentre ad Hong Kong arriva già l’11 luglio 1985.

Locandina del 21 giugno 1986

La prima apparizione sicura in una sala italiana è del 21 giugno 1986, con il titolo Protector (senza “The”). Ci rimane pochissimo e la rarissima VHS Warner Home Video non so quando sia uscita: probabilmente alla fine del 1986 o nel 1987. Dopo di che non si conosce altra traccia del film in qualsiasi altro formato italiano: FilmTV.it parla di un passaggio televisivo del 25 agosto 2016 su Cielo, che mi spiace d’aver mancato.


Strambi sbirri di menare
a Hong Kong

Il saggio Jackie Chan: Inside the Dragon (1997) di Clyde Gentry III afferma che The Protector nasce da un soggetto di Robet Clouse, presenza assillante delle produzioni Golden Harvest. Il non apparire in alcun credito forse vuol dire che persino gli unici al mondo a stimare Clouse hanno trovato indegno di nota il suo lavoro.

Schermata della VHS italiana, con inquadratura più ampia delle copie digitali

La storia ha per protagonista Billy Wong (Jackie), un poliziotto di Hong Kong che da dieci anni lavora in America. Un giorno con il suo collega si ferma ad un bar quando entrano i soliti due criminali pittoreschi tipici di New York e fanno un massacro: inizia un lungo ed immotivato inseguimento in auto, poi in motoscafo, poi in elicottero e poi in astronave. Così già nei primi dieci minuti di film Glickenhaus mette subito in chiaro che non c’è traccia di tabacco nelle sue sigarette.

Sparare in un cesso: ecco dove Glickenhaus ha portato Jackie

Finita la buffonata dell’inseguimento per terra, aria e acqua, manco la polizia di New York fosse la SEAL (SEa, Air and Land), Billy riceve una lavata di testa dal capo, il solito capo della polizia di New York che grida sempre. E qui sbotta pure con un «Mi hai scassato le palle!» Quanti film di Jackie ricordate con del turpiloquio? Esatto, nessuno. Costretto a sputare parolacce come piovesse, Jackie al momento di rimontare il film per il mercato asiatico ridoppia tutto, togliendo quei due o tre chili di inutili improperi messi lì solo perché Glickenhaus era nella sua fase “Fuck Yeah”. E dà soddisfazione alla Golden Harvest americana replicando la “sparata volante” che dieci anni prima già era ridicola quando la faceva George Cheung: non fa eccezione questa versione di Jackie, anche se è un atleta ovviamente migliore.

Sparata volanteeeee

Dopo aver partecipato ad una festa, dove di nuovo arrivano criminali che sparano – ma portasse jella, ’sto Billy Wong? – il nostro eroe si ritrova a lavorare su un caso che porta ad Hong Kong, e a fare coppia con il suo nuovo collega Danny Garoni: un Danny Aiello che non è ancora il famoso caratterista che tutti amiamo, è ancora un po’ grezzo e soprattutto costretto a fare l’insopportabile “spalla comica”. Visto che questo film è la “prova generale” di Rush Hour (1998), diciamo che Aiello interpreta Chris Tucker, ma senza averne il carisma e senza un copione all’altezza.

Se non sono “Strambi sbirri” questi…

Visto che Aiello è di discendenza italiana, ecco che deve interpretare l’allupato, che fa inutili battutine sessuali ogni volta che apre bocca: siamo nei primi anni Ottanta e il cinema americano si regge sul parlare di sesso. Così appena sbarcati ad Hong Kong Billy e Danny si infilano in un centro massaggi con relativa entrata in scena di donnina nuda ammiccante. Jackie prende nota: “nella mia versione, qui va tutto cancellato”. Anche Brett Ratner prende appunti: “Bella, la scena del salone massaggi: me la segno per Rush Hour 2“.

Segnatevi questa scena, la ritroverete in Rush Hour 2 (2001)

La tramona è di quelle che spaccano (non dico cosa), con i due “strambi sbirri” che da soli sventano il super-boss mafioso di Hong Kong e il suo esercito di due uomini. Il peggio del peggio della tradizione americana ma con in più Jackie che si butta da cose per atterrare su altre cose.

Jackie zompa dappertutto… ma non arriva mai a niente

Glickenhaus tenta di fondere due tradizioni, riuscendo così a sbagliarle entrambe. Vorrebbe girare un rude e tosto poliziesco all’americana ma la trama è talmente ridicola da far ridere i polli, poi però la condisce di un numero impressionante di scene d’azione all’asiatica, tutte girate male così da rendere il prodotto ridicolo. Non stupisce che Jackie anni dopo nella sua biografia sia lapidario con questo film:

«Se Chi tocca il giallo muore è stato un errore, The Protector è stata una catastrofe».


L’arte del combattimento

Jeff Rovin è uno di noi. Nel maggio 1995 esce il suo romanzo ispirato al videogioco Mortal Kombat: era dai tempi de Il tesoro di Shadowkeep (1984) di Alan Dean Foster che l’esperimento di novellizzare un videogioco non veniva replicato. Rovin poi firma il romanzo-capolavoro Broken Arrow (1996), che amplia e migliora la storia del film omonimo di John Woo: l’anno dopo, con il citato The Essential Jackie Chan Sourcebook (1997), Rovin finalmente si mostra per l’appassionato di cinema marziale asiatico che è sempre stato. E ci racconta come negli anni Ottanta chi volesse vedere i film di Hong Kong poteva solamente recarsi nel quartiere cinese e sperare di trovare qualcosa, ma non era detto di avere fortuna. Ciò spiega l’enorme successo di un film in realtà piccolo come I 3 dell’Operazione Drago (1973), semplicemente perché per la prima volta gli americani hanno potuto vedere qualcosa “alla Hong Kong” nei loro cinema di quartiere. Se in Italia, che invece dal 1973 ha sempre dato larghissimo spazio al cinema marziale asiatico in sala, in TV e in seguito in videoteca, i film americani di Jackie sono tonfi totali, accolti dalla più completa indifferenza, figuriamoci quanto potevano piacere ad un pubblico americano, che non aveva idea di cosa fosse lo “stile asiatico” d’azione.

Di’ un po’, Jackie: ma è vero quello che dicono delle dimensioni asiatiche?

Sulla differenza tra azione occidentale ed asiatica la faccio semplice, ma per approfondire vi invito caldamente alle video-interviste di Scott Adkins con i più grandi autori d’azione americani, come Gareth Evans, J.J. “Loco” Perry, Chad Stahelski, Jude Poyer e Sam Hargrave.
Storicamente in America qualsiasi tipo di scena d’azione fisica viene creata a tavolino poi girata per blocchi, e ogni blocco è girato nella sua interezza in campo largo, sì da inquadrare tutto, poi si girano primi piani di particolari che in sala di montaggio si useranno per “condire” ogni blocco. In Asia, soprattutto grazie a Sammo Hung (aggiungo io), non si gira alcun campo largo ma solo particolari: la coreografia non è scritta, non c’è alcuno storyboard, ma è un processo fluido in cui si girano solo particolari che man mano, ripresa dopo ripresa, creano quel flusso d’azione che finirà nel film.

Te meno prima a blocchi poi in particolare!

Stando alle dichiarazioni riportate da Rovin, Glickenhaus è perfettamente conscio di questa differenza ma se ne frega, non gli piace lo stile asiatico – che peraltro richiede tempi infinitamente più lunghi di quelli ristrettissimi in uso in America – e convinto che quel sistema non funzioni per gli occidentali lo ignora volutamente. Che senso ha avere una star nota per una tecnica… e farle usare tutt’altra tecnica? È stato molto più furbo Joel Silver al momento di chiamare Let Li, perché gli ha fatto portare il suo coreografo migliore (Corey Yuen) e gli ha fatto fare in America le cose che faceva ad Hong Kong. (Possiamo discutere sul risultato, ma di sicuro è piaciuto agli spettatori occidentali molto più che la roba di Glickenhaus.)

Lo scontro finale con il campione del ring Bill Wallace, che già aveva affrontato Chuck Norris ne La polvere degli angeli (1979), è il momento topico perché si fa più abissale la differenza tra le due concezioni di un film d’azione: Glickenhaus gira una scazzottata all’americana, Jackie poi per il mercato asiatico gira un combattimento alla Jackie Chan. Teoricamente il regista avrebbe avuto l’ultima parola sul montaggio, in condizioni normali sarebbe stato inconcepibile che l’attore principale rimontasse il film per il mercato estero, ma queste non sono condizioni normali: sia perché a pagare è la Golden Harvest, non una casa americana che debba sottostare alle leggi del cinema americano, sia perché – di nuovo – Glickenhaus non è nessuno e Jackie è il re dell’Asia. Dubito fortemente che il regista si sia lamentato con la produzione, all’epoca, al massimo l’avrà fatto con i giornalisti americani.

Ecco come ci si mena ad Hong Kong!

Intervistato da Brad Curran di Kung-Fu Kingdom il 27 novembre 2017, così Bill Wallace ricorda le riprese della sua scena.

«È stata un’esperienza divertente. Abbiamo girato ad Hong Kong e abbiamo fatto due versioni differenti della nostra scena di combattimento. Abbiamo girato quella per la versione americana, più asciutta, e poi quella per la versione cinese, con molta più enfasi sulla difesa. C’era un momento in cui davo un gancio alle costole di Jackie e un tizio della troupe ha gridato: “No, non è forte abbastanza: devi darlo più forte”, e io non volevo. Dicevo: “Guardate che il mio gancio è parecchio forte”, ma Jackie voleva essere colpito duramente, infatti si era infilato delle protezioni sotto la giacca. Riprendemmo e assestai un gancio bello potente fra le sue costole, facendogli uscire tutta l’aria dai polmoni. E dissi: “Ve l’avevo detto”.»

Va bene così, Jackie? Sei contento?

Malgrado tutto, The Protector rimane un film spurio, mezzo americano e mezzo cinese, quindi non appartenente ad alcuna nazionalità o stile. È un rozzissimo poliziesco all’americana di serie Z con Jackie che zompetta di qua e di là: non è un film da mettere ai primi posti della filmografia degli interessati.

Il secondo tentativo della Golden Harvest di vendere Jackie agli americani è di nuovo un totale fallimento, segno che non si impara mai dai propri errori, al massimo si impara a ripeterli sempre uguali. Chiusa l’odiata parentesi, Jackie è smanioso di tornare a comandare lui sul set, anche perché l’esperienza gli ha suggerito un filmetto che potrebbe anche diventare famoso… e potrebbe cambiare per sempre il cinema di Hong Kong.

(continua)


L.

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24 risposte a Jackie Chan Story 14. Strambi sbirri

  1. Zio Portillo ha detto:

    Una videocassetta buttata là senza etichetta… Poteva essere quella di THE RING (e sarebbero stati c@zzi tuoi!) o quella di Tommy e Lizzie di TRAINSPOTTING (e sarebbero stati c@zzi loro! Anzi, di Tommy…) e invece ti è andata di culo e hai pescato il jolly.

    Ovviamente non sapevo nulla di tutta la travagliata produzione di questo THE PROTECTOR. E non credo manco di averlo mai visto se devo essere sincero… Trovo però geniale nella sua semplicità che Jackie abbia semplicemente faccio spallucce, e incazzato abbia rimontato e allungato il film per renderlo “suo”. Bellissimo poi il racconto sul combattimento finale e sul “menalo più forte”!

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      Onestamente non credo che l’avrei comprata se non avesse avuto etichetta: solo negli horror si fanno certe scelte avventate 😀
      Scherzi a parte, purtroppo era la custodia ad essere perduta, l’etichetta sulla VHS c’era e ho ballato a lungo il Ballo della Chicca!
      Al di là di questa cassetta del 1986 o 1987 dubito che sia mai esistito altro modo di vedere in italiano questo film, anche se onestamente non c’è da strapparsi i capelli: è veramente brutto, ma serve a gustarsi la prova generale di “Rush Hour” 😉

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  2. Cassidy ha detto:

    Questo lo avevo visto e non mi aveva detto molto, malgrado il tema da strambi sbirri e il mitico Danny Aiello ridotto a ruolo generico, lo rivedrò stasera dopo il venerdì Mandaloriano però bisogna dire che le sortite americane di Jackie, per quanto disastrose, hanno sempre generato una sua reazione cinematografica incredibile, inoltre ho adorato il racconto, altro gran post 😉 Cheers!

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  3. Madame Verdurin ha detto:

    Più bello il tuo post del film! Che ridere l’idea di un Jackie Chan “clinteastwoodizzato!” 😀

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  4. Cristian Maritano ha detto:

    Probabilmente Jackie era più adatto al gusto americano, ed intendo al grande pubblico; nelle vesti bonaccione mena cattivi che tutti conosciamo. Da molto non vedo un suo film fatto in USA forse l’ultimo è stato proprio The Forbidden Kingdom del 2008.

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      Non conservo un buon ricordo di quel film, diciamo che lo disprezzo alquanto :.-P
      Per anni avevo sognato un film con Jackie e Jet insieme, ed ecco la prova che bisogna sempre stare attenti a ciò che si desidera!
      Negli ultra-razzistici anni Ottanta non so quanto Jackie sarebbe piaciuto al grande pubblico. Noi siamo una colonia americana, abbiamo sempre amato gli stessi film eppure da noi Jackie uscita tranquillamente su grande schermo nella più totale indifferenza: temo non ci fosse ancora la base giusta per accettare una visione così “straniera” del cinema.

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  5. Willy l'Orbo ha detto:

    Film più o meno riprovevoli, “riscattati” da post…a dir poco ammirevoli (nonché spassosi), e quest’ultimo non fa eccezione! 🙂
    Insomma, a me questa settimana di strambi sbirri è piaciuta troppo! Non so come ma…rifacciamola, Lucius! 🙂

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  6. Giuseppe ha detto:

    Ti dirò, di James Glickenhaus mi erano piaciuti sia “Exterminator” che “Executor” (con la colonna sonora degli ottimi Tangerine Dream): due titoli già sufficienti di per sé a far capire quanto lo stile di Glickenhaus fosse del tutto incompatibile con quello di Jackie… il pessimo risultato della loro “ibridazione” avrebbe dovuto essere prevedibilissimo anche e soprattutto per un produttore come Leonard Ho, che certo non poteva essere all’oscuro di quanto gli USA non fossero per niente interessati al Jackie autentico. Ovviamente costretto, rebus sic stantibus, a dover rimettere mano al film per poterlo distribuire sotto una veste un minimo decente anche in Asia…

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      Exterminator è un signor film, anzi dovrei decidermi a recensirlo, mentre Executor mi ha lasciato freddino. Comunque è uno stile perfettamente in linea con il gusto del tempo, cosa che Jackie non era, per il pubblico americano. Mettere insieme i due era un errore così facilmente prevedibile che stupisce l’essere stato compiuto. E non era la prima volta!

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  9. Kukuviza ha detto:

    questo regista mi sa che ha fatto come quelli che arrivano lì e pensano di sapere tutto, di avere chissà quali idee geniali e invece bum! Chissà se poi si rendono conto che non sapevano niente. oppure se appunto danno le colpe alle cose più strane e non alla qualità del loro prodotto.

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    • Lucius Etruscus ha detto:

      Immagino che il regista si sia visto arrivare ‘sti cinesi strani, in un’epoca dove erano considerati solo dei pittoreschi scemotti, e così se la sia tirata da “ammericano yeah”, quando in realtà non era nessuno e lo si vede dal suo pessimo prodotto.
      Il vero mistero è perché la Golden Harvest si circondasse solo di incapaci americani: forse era per far fare bella figura agli autori cinesi? 😀

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      • Kukuviza ha detto:

        non saprei, altre case cinesi avevano rapporti con registi americani? forse gli americani bravi non volevano avere a che fare coi cinesi, all’epoca?

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      • Lucius Etruscus ha detto:

        I cinesi erano storicamente chiusi, la regina del cinema Shaw Bros non faceva certo affari con i “diavoli bianchi”, i loro film erano esclusivamente per il mercato del sud-est asiatico (Giappone, Thailandia, Corea, Taiwan e Cina continenatale, per lo più) e solo dopo che Bruce Lee è diventato un fenomeno mondiale quella cinematografia ha iniziato, pian pianino, ad aprirsi agli occidentali. Sempre però con le dovute attenzioni, infatti gli attori occidentali sono chiamati a HOng Kong solo per fare i buffoni scemoni con tanto di boccacce: proprio come i cinesi sono chiamati in Occidente a fare i “cin cio lin” cretini.
        Direi che solo negli ultimi dieci anni la supremazia economica cinese (di fatto sono l’unica Nazione al mondo ad avere i soldi veri, quelli sonanti) e la nascita di grandi case sino-americane (come la Legendary, che insieme a Warner gestisce tutti i film di Kong, Godzilla ecc.) ha portato davvero ad una fusione dei due cinema, senza che l’uno prenda in giro l’altro.
        Nei primi Ottanta la Golden Harvest era una pioniera in questo campo, quindi ci sta che molte sue decisioni fossero traballanti e discutibili, con il senno di poi.

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